Abstract
Questo articolo analizza il ruolo decisivo del colpo di Stato del 1953 nella storia contemporanea dell’Iran, sottolineando come la destituzione forzata di Mossadeq abbia interrotto lo sviluppo interno di una via costituzionale e liberale alla modernità. L’imposizione autoritaria seguita al golpe ha favorito l’ascesa delle frange più radicali dell’islamismo sciita a discapito delle correnti moderate e secolari; ciò è avvenuto grazie all’organizzazione capillare del clero religioso e ad una strategia narrativa che presentava gli islamisti come autentici difensori della tradizione nazionale contro l’occidentalizzazione imposta dallo Shah. La violenza politica collettiva viene individuata come elemento strutturale sia nella repressione monarchica che nelle successive mobilitazioni rivoluzionarie. Il contributo si sofferma sul declino degli intellettuali progressisti nel clima pre-rivoluzionario iraniano ed evidenzia infine il legame tra la sconfitta storica dei movimenti liberal-democratici dopo Mossadeq e la vittoria finale delle forze teocratiche guidate da Khomeini.
This article analyzes the decisive role of the 1953 coup in the contemporary history of Iran, emphasizing how the forced ousting of Mossadeq interrupted the internal development of a constitutional and liberal path to modernity. The authoritarian imposition following the coup favored the rise of the most radical factions of Shia Islamism at the expense of moderate and secular currents; this occurred thanks to the extensive organization of the religious clergy and a narrative strategy that portrayed the Islamists as authentic defenders of national tradition against the Westernization imposed by the Shah. Collective political violence is identified as a structural element both in monarchical repression and in the subsequent revolutionary mobilizations. The contribution focuses on the decline of progressive intellectuals in the pre-revolutionary Iranian climate and finally highlights the link between the historical defeat of liberal-democratic movements after Mossadeq and the final victory of the theocratic forces led by Khomeini.
Introduzione – Il Colpo di Stato del 1953
Nel 1953, il Primo Ministro della Persia, Mohammad Mossadeq (o Mossadegh) venne scalzato mediante un colpo di Stato orchestrato dall’intelligence di Stati Uniti d’America e Gran Bretagna; si tratta di un evento che ha avuto un profondo impatto sull’evoluzione della coscienza nazionale dello Stato. Si è creata una rottura evidente rispetto alle aspirazioni non violente e legittime degli iraniani, che erano state espressse e concretizzate nella Costituzione del 1906.
Gli effetti della rimozione forzata (e esterna) di Mossadeq non possono essere sottovalutati, in quanto egli rappresentava la possibilità di conciliare la Persia con la modernità; questa carta costituzionale, in effetti, conteneva elementi innovativi rispetto al passato. Per la prima volta, era definita una chiara separazione tra i poteri dello Stato, ed erano indicati dei diritti civili; sebbene questa carta fosse ancora pesantemente condizionata dall’Islam sciita, si intravvede per la prima volta la volontà di allinearsi al pensiero costituzionale moderno.

La rimozione forzata di Mossadeq ha dunque impedito che il giovane ed acerbo costituzionalismo persiano si potesse evolvere secondo un movimento interno al Paese; di fatto, il colpo di stato del 1953 inaugura una stagione di riforme forzate e di autoritarismo che poi condurranno alla Rivoluzione Islamica del 1979. Considerando la composizione eterogenea delle forze che la hanno animata, sembra ragionevole ritenere che questo evento è stato possibile, ed ha favorito l’ascesa delle forze più reazionarie della nazione, ovvero gli ayatollah.
La presenza secolare, capillare e ben organizzata del clero sciita ha dunque permesso alle frange religiose più radicali di sfruttare le proteste e l’instabilità che si erano create, la cui causa profonda è proprio il colpo di stato del 1953. Presentandosi come il leader perseguitato da un potere corrotto e autoritario, Khomeini ha saputo proporre una narrativa che lo ha posto come leader naturale della Rivoluzione, e questa ideologia è ancora impressa nell’immaginario collettivo iraniano.
La Violenza come Strumento Ordinario di Lotta Politica
Mohammad Mossadeq era notoriamente una persona che ha rifiutato di usare violenza contro gli oppositori politici, un atteggiamento ben diverso dalla violenza collettiva organizzata usata per scalzarlo, e, successivamente, per ottenere un controllo sociale capillare. Si tratta di una strategia che, del resto, non avrebbe avuto successo se la violenza e la mobilitazione di masse violente non fosse stata una caratteristica già presente nella società e politica dell’allora Persia.
La cosiddetta ‘mob psychology’, in Persia prima e in Iran dopo, mostra chiaramente che gli iraniani tendono ad assumere comportamenti diversi quando agiscono in gruppo, e non individualmente; l’appartenenza a gruppi criminali permette agli iraniani di commettere atti che le singole persone probabilmente non commetterebbero mai. Si tratta di un cambiamento della condotta che non è dovuta ad un mutamento delle convinzioni personali, ma dalla convinzione di evitare (agendo in gruppo) o ignorare il giudizio morale o razionale.
Del resto, elementi strutturali della violenza organizzata sono ancora presenti nell’Iran contemporaneo, e spiegano la predisposizione della società persiana/iraniana ad esprimere forme di governo autoritario; per questa ragione, il colpo di stato del 1953 ha avuto successo. Tale azione, pianificata dall’esterno, ha incontrato un fertile terreno nella società persiana. Probabilmente, il governo di Mossadeq sarebbe stato rovesciato dai suoi stessi oppositori, che, al contrario del governo, usavano la violenza, ritenendola un legittimo strumento di lotta politica.
La Violenta Opposizione allo Shah
Considerando le forze attive nella società iraniana, è difficile concepire un’opposizione allo Shah diversa rispetto a quella che si verificò storicamente; l’imperatore della Persia non riuscì ad analizzare correttamente il panorama politico del suo Paese. Pertanto, l’atteggiamento autoritario adottato innescò la necessità di un’opposizione violenta; in altre parole, alla violenza dello Stato ci fu la risposta, altrettanto violenta delle opposizioni.
Queste ultime consistevano, principalmente, nella sinistra radicale (comunista) e negli esponenti del governo teocratico, che, a differenza dei primi, potevano contare su una presenza secolare e su una solida organizzazione. Alla concezione assolutista dello Shah (dopo il 1953) si opposero dunque due utopie, quelle di una società socialista, senza classi, e quella dell’Islam radicale, con una visione totalitaria e totalizzante della religione.
Il timore di perdere i propri privilegi a causa di una concezione liberale della monarchia portò dunque alla formazione di due alternative altrettanto assolutiste, che intendevano rovesciare il regime monarchico; pertanto, le aspirazioni liberali, democratiche e pluraliste furono soffocate dalle scelte errate di una dinastia, quella dei Pahlavi, che non seppe riconoscere e alimentare le forze che potevano assicurare la continuità sostanziale dello Stato, seppure in senso liberale.
Per questa ragione, la protesta contro lo Shah assunse toni rivoluzionari, senza la possibilità di un’alternativa più moderata; tuttavia, le due principali opposizioni ricevevano trattamenti differenti; la sinistra, anche liberale, venne perseguitata dal regime monarchico. L’Islam radicale, invece, ebbe la possibilità di espandersi e di diffondersi capillarmente, facendo leva sul tradizionale apparato religioso persiano.
Era ben solida, in effetti, la rete di moschee, seminari e scuole religiose, al pari dei media, in cui la presenza islamica era ben consolidata; per questa ragione, in un momento storico in cui la protesta assunse toni radicali, anche l’Islam politico seppe approfittare di questa opportunità. L’ayatollah Khomeini, in particolare, emerse come l’uomo capace di catalizzare le forze il sentimento rivoluzionario, dirigendolo nella direzione islamista.

E’ in tale contesto, del resto, che lo stesso Khomeini formulò la teoria che sarebbe stata posta alla base del’Iran post rivoluzionario;
In this rather novel theory, during the absence of the
prophet’s heirs – vacant since the ‘great occultation’ or disappearance of the
twelfth Imam Mahdi in the tenth century – the world can be governed
legitimately only by a Vali-e-Faqih – the only one who can execute God’s
will on behalf of the Hidden Imam – the agency with a mandate to rule both
politically and spiritually.
In questa teoria piuttosto nuova, durante l’assenza del
eredi del profeta – vacante dalla ‘grande occultazione’ o scomparsa del
dodicesimo Imam Mahdi nel decimo secolo – il mondo può essere governato
legittimamente solo da un Vali-e-Faqih – l’unico che può eseguire la volontà di Dio
a nome dell’Imam Nascosto – una persona che ha il mandato di governare sia politicamente che spiritualmente che politicamente.
Amuzegar, Jahangir. (1991).The Dynamics of the Iranian Revolution: The Pahlavis’ Triumph
and Tragedy. New York, p. 27.
La protesta di Khomeini, dunque, fu costruita allo scopo di sembrare radicata nella tradizione islamica, allo scopo di sfruttare la presenza secolare dell’Islam sciita, e presentarsi come legittimo governante della Persia/Iran.
Gli Intellettuali Pre-Rivoluzionari
L’Iran pre-rivoluzionario era segnato dalla presenza di due tipologie ben distinte di intellettuali sul piano socio-culturale; da un lato vi erano coloro profondamente influenzati dalle letture della modernità in chiave marxista o comunista, spesso del tutto separati dal mondo religioso. Dall’altro, invece, si segnalavano coloro che volevano attuare una sorta di revivalismo islamico, ma che non sentivano l’esigenza filosofica di confrontarsi realmente con la modernità occidentale.
In entrambi i casi, si poneva il problema di mantenere fede al proprio ruolo critico senza rinunciare alla responsabilità dell’intellettuale, nell’impossibilità di sottrarsi al processo d’istituzionalizzazione dell’Islam politico, emerso come nuovo discorso dominante del potere iraniano. In altre parole, molti tra gli intellettuali liberali e progressisti dovevano cercare di assolvere ai propri doveri culturali all’interno di un clima diffuso di antintellettualismo. Tale contesto era caratterizzato anche dalle tesi totalizzanti sull’“occidentalizzazione” (Gharbzadegi) elaborate da Al e Ahmad e dal sospetto verso quello che veniva definito ‘il tradimento degli intellettuali’.
Verso la finire del regime Pahlavi gli intellettuali apparivano dunque tra le componenti più deboli dello spazio pubblico iraniano; in questo senso, la Rivoluzione Iraniana del febbraio 1979 non fu quindi tanto frutto delle élite colte quanto piuttosto uno sconvolgente cambiamento politico destinato a riportare nella storia contemporanea dell’Iran forme massicce (e purtoppo durature) di violenza collettiva. Il crollo improvviso della ‘più forte potenza militare della regione’, seguito dall’instaurazione temporanea di una doppia sovranità nello Stato persiano, rimane ancora oggi materia enigmatica per studiosi ed osservatori internazionali.
Le cause profonde della rivoluzione restano oggetto aperto al dibattito storiografico, ma appare indiscutibile che la caduta del governo popolare guidato da Mossadeq (insieme alle idee liberali e costituzionaliste ad esso associate) abbia spalancato nuovamente le porte alla violenza organizzata nell’evo moderno iraniano. La maggior parte degli esperti ritiene che sia stata l’incapacità dei Pahlavi nel leggere correttamente i cambiamenti e le aspirazioni sociali; la sola risposta fu la repreessione e la violenza sistematica, che determinò la fine dello stesso sistema monarchico.
Di conseguenza, lo Shah non fu capace di elaborare una via persiana alla modernità, ma accettò quella imposta dall’Occidente; un modello straniero venne dunque importato e imposto senza un dibattito sociale che ne avrebbe potuto comportare l’accettazione. La Rivoluzione Bianca, pertanto, venne percepita come una rottura con la tradizione persiana, e non come un elemento innovatore e positivo, a prescindere dalle intenzioni dello Shah.
L’Islam Liberale Pre-Rivoluzionario
In Persia non esistava solamente la corrente islamista, radicale che ha poi preso il sopravvento, ma anche una corrente liberale, che concepiva la religione islamica come una forza sociale che rispetta la libera volontà dei cittadini e rigetta qualunque tentativo di forzare le persone a credere in qualcosa di specifico. L’Islam liberale sostiene pienamente la democrazia e un sistema politico rappresentativo, rifiuta di ricorrere alla violenza come strumento di promozione dell’Islam, e cerca di risolvere le problematiche sociali.
L’Islam liberale, sia quello politico che apolitico, mostrava un forte legame con la Costituzione del 1906, basata, appunto, sulla sovranità del popolo, e non di Dio e dei suoi ‘rappresentanti’; ciò nonostante, questa Carta rimane ancorata ai principi islamici, che difendeva e da cui sostanzialmente derivava. Si trattava, del resto, del primo serio tentativo costituzionale in un Paese che storicamente è stato segnato dall’assolutismo monarchico e dall’esclusivismo religioso.

Il pensiero liberale islamico dell’Iran, in effetti, si può far risalire alla ‘Rivoluzione Costituzionalista Iraniana’, guidata dall’ayatollah Mirza Mohammad Hosayn Naini, che definì la base teologica sistematica di uno stato democratico. In realtà, i pionieri del liberalismo islamico rigettarono sia la visione conservatrice dei tradizionalisti che quella romantica dei modernisti radicali; essi accettarono alcuni elementi della modernità (ordine sociale, tecnologia, ecc), ma ne rifiutarono altri, come il materialismo e l’individualismo.
Il Liberalismo Islamico Politico
Il colpo di stato del 1953 segna l’emergere di un nuovo approccio all’Islam, che può essere definito come una forma di Islam liberale, ma politicamente orientato; la violenta destituzione del Primo Ministro Mossadeq spinse alcuni esponenti dell’islamismo liberale (come l’ayatollah Mahmud Taleqani e Mahdi Bazargan) ad impegnarsi direttamente nell’arean politica, nel tentativo di mantenere viva la causa liberale.
Immediatamente dopo il golpe questi leaders fondarono insieme ai seguaci laici di Mossadeq il Movimento della Resistenza Nazionale; tuttavia, alcune divergenze con gli esponenti secolari portarono questo gruppo islamico-liberale ad approfittare delle aperture politiche del 1961 per costituire una propria organizzazione autonoma, il Movimento per la Libertà dell’Iran, FMI.
La nascita del FMI determinò una sostanziale rivitalizzazione dell’Islam liberale di orientamento politico proprio del periodo costituzionale iraniano d’inizio Novecento; questo gruppo, tuttavia, si distingueva dai suoi predecessori per un aspetto fondamentale. Durante la stagione costituzionalista l’Islam liberale era sostanzialmente circoscritto agli ‘ulama’, dato che i mokalla erano prevalentemente esponenti secolari e liberali. Con il nuovo corso, invece, gli islamici liberali provenivano soprattutto dalle fila dei laureati presso le università moderne iraniane o addirittura europee.
Al pari di molti intellettuali del tempo, questi leaders adottavano spesso una visione positivista della modernità; essi ritenevano inoltre che vi fosse una piena consonanza tra il Corano e le scienze moderne; tale convinzione era sostenuta attraverso numerose pubblicazioni con cui si tentava di dimostrare questa compatibilità. Secondo tale prospettiva, interpretare i versetti coranici relativi alla natura alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche avrebbe non solo rafforzato ed ampliato la conoscenza umana sulle creature del mondo, ma anche avrebbe anche avuto benefici per la fede islamica.
Attraverso questo approccio essi cercavano di ottenere due obiettivi considerati complementari, ovvero avvicinare alle scienze naturali i credenti religiosi, e, allo stesso tempo, attrarre verso l’islamismo progressista gli intellettuali più distanti dalla tradizione religiosa. Essi erano convinti che fosse compito di ogni musulmano devoto difendere sia la Costituzione iraniana sia la sovranità nazionale contro qualunque ingerenza esterna o abuso interno di potere statuale. Per queste ragioni, gli esponenti del FMI non cessarono di denunciare apertamente pratiche incostituzionali dello Stato, e nemmeno quelli che consideravano ‘scandalosi interventismi imperialisti’ ai danni dell’Iran.
L’Islam come Orizzonte Unico
I musulmani liberali, al pari degli elementi più radicali, si muovevano sempre in un orizzonte in cui la fede islamica era il centro e fondamento delle loro azioni, specialmente politiche; per questa ragione, i liberali non furono mai una reale e credibile alternativa al regime dello Shah. Pertanto, essi erano considerati eccessivamente progressisti dai conservatori e tradizionalisti, e poco rivoluzionari dalle forze marxiste, che prescindevano totalmente dalla fede islamica e proponevano una visione unicamente materialista e secolare.
Considerando che i marxisti (e i liberali laici) non furono mai una forza decisiva in Persia/Iran, si comprende facilmente la ragione della vittoria degli islamisti; a differenza dei moderati, essi erano considerati credibili e difensori della tradizione, tradita (secondo il loro punto di vista) dalla svolta autoritaria e occidentalizzante del Re. Quando scoppiarono le proteste, dunque, fu chiaro che il reale obiettivo non era quello di chiedere maggiori libertà, ma di difendere i valori tradizionali, ‘traditi’ dalle scelte dell’ultimo Re di Persia; gli islamisti radicali, forti della loro organizzazione, riuscirono ad imporsi come leaders legittimi dell’Iran.
Khomeini, dunque, riuscì a farsi riconoscere come il solo e legittimo erede della tradizione persiana, che aveva sempre accordato un posto fondamentale all’Islam sciita e alle isituzioni religiose; le correnti liberali, invece, furono spiazzate a causa del loro sostegno a cause e valori considerati ‘occidentali’, ‘esterni’. Questa visione rimane ancora sostanzialmente intatta, e si manifesta nella continua e sistematica opposizione all’Occidente e alle sue politiche.
Conclusioni
La Rivoluzione Islamica del 1979 è stata preparata dal golpe del 1953, con cui Stati Uniti d’America e Gran Bretagna hanno scalzato l’allora Primo Ministro Mossadeq, fautore di politiche liberali, democratiche e non violente. La svolta autoritaria del regime monarchico, che ha cercato di preservare i suoi privilegi hanno creato un crescente malcontento, di cui hanno approfittato gli islamisti radicali, che si sono presentati come gli autentici eredi della tradizione, e, dunque, come legittimi governanti dell’Iran.
Letture Consigliate
- Amir Sheikhzadegan, Astrid Meier. (2017). Beyond the Islamic Revolution. Perceptions of Modernity and Tradition in Iran before and after 1979. De Gruyter.
- Pargoo, M. (2021). Secularization of Islam in post-revolutionary Iran. Routledge.
- Rahnema, A. (2021). The rise of modern despotism in Iran: The Shah, the opposition, and the US, 1953–1968. Simon and Schuster.