- Abstract
- Introduzione – La Rivoluzione del 1979
- L’Iran Pre-Rivoluzionario – Il Regime dello Shah
- Fattori Strutturali e Cause della Rivoluzione
- L’Ascesa di Khomeini e del Clero Sciita
- I Primi Anni della Rivoluzione (1977–1979)
- Implicazioni e Trasformazioni Post-Rivoluzionarie
- Riflessioni Critiche e Prospettive Storiche
- Conclusione
- Letture Consigliate
Abstract
La rivoluzione islamica iraniana del 1979 si presenta come un evento epocale, capace di modificare profondamente la visione del mondo moderno, in quanto ha riportando la religione al centro del potere politico. Questo articolo esplora le radici storiche, le dinamiche sociali e le conseguenze ideologiche di quella rivoluzione, restituendo voce ai suoi protagonisti, ovvero ai milioni di iraniani che scesero in piazza per reclamare giustizia, dignità e sovranità. Tra speranze tradite e identità riconquistate, l’Iran post-rivoluzionario rimane un laboratorio complesso, in cui si intrecciano fede, politica e memoria collettiva. Comprendere quella rivoluzione significa comprendere anche le sfide aperte dell’Iran contemporaneo.
The 1979 Iranian Islamic Revolution marked a turning point in modern history, reshaping political narratives by placing religion at the core of state power. This article examines the revolution’s historical roots, social dynamics, and ideological outcomes through the lived experiences of millions of Iranians who demanded justice, dignity, and sovereignty. Between broken hopes and reclaimed identity, post-revolutionary Iran remains a complex laboratory where faith, politics, and collective memory continue to collide. Understanding the revolution means confronting the enduring questions shaping Iran’s present and future.
Introduzione – La Rivoluzione del 1979
Nell’inverno del 1979, milioni di iraniani scesero in piazza per sfidare un regime repressivo e accusato di essere eccessivamente dipendente dall’Occidente; le strade di Teheran, Qom e Isfahan si riempirono di manifestanti che invocavano giustizia, dignità e un ritorno ai valori spirituali dell’Islam sciita. Donne velate, operai, studenti, religiosi e intellettuali formarono una coalizione eterogenea che in pochi mesi riuscì a rovesciare la monarchia millenaria dei Pahlavi. Al suo posto nacque una nuova entità politica, la Repubblica Islamica dell’Iran, fondata sulla dottrina del velayat-e faqih, la guida del giurista islamico.
La rivoluzione islamica iraniana non fu soltanto un evento interno, ma una scossa tellurica che ridisegnò gli equilibri geopolitici della regione, ispirando movimenti islamisti e preoccupando le potenze occidentali. A più di quattro decenni di distanza, essa continua a suscitare dibattiti tra storici, analisti politici e studiosi di religione; ci si chiede se essa fu una rivoluzione popolare oppure una presa di potere da parte del clero sciita. In altre parole, si tratta di comprendere fino a che punto essa fu una ribellione contro l’imperialismo oppure un progetto teocratico pianificato dall’inizio.
Certamente, la gestione errata delle proteste da parte dello Shah ha dato un contributo significativo sul suo risultato finale; la forte repressione di una monarchia che stava tramontando non contribuì certamente a preservare il governo dello shah.
L’Iran Pre-Rivoluzionario – Il Regime dello Shah
Per comprendere le origini della rivoluzione del 1979, è necessario tornare agli anni in cui lo Shah, Mohammad Reza Pahlavi, consolidava il proprio potere; salito al trono nel 1941, lo Shah governava un paese profondamente diseguale, dove lo sfarzo di Teheran strideva rispetto all’estrema povertà delle campagne. La svolta autoritaria avvenne dopo il colpo di Stato del 1953, orchestrato con l’aiuto della CIA e dell’intelligence britannica, che depose il primo ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadeq. Da quel momento, il regime divenne sempre più legato agli interessi occidentali, specialmente statunitensi, mentre internamente si rafforzava attraverso la repressione.

Negli anni ’60, lo Shah lanciò la White Revolution, un ambizioso programma di modernizzazione che includeva la riforma agraria, l’alfabetizzazione di massa e l’emancipazione delle donne. Tuttavia, queste riforme, calate dall’alto e imposte senza mediazione sociale, finirono per alienare sia i contadini espropriati sia il clero sciita, che vedeva minacciato il proprio ruolo tradizionale. La modernizzazione, lungi dal creare coesione, approfondì le disuguaglianze. Mentre l’élite cosmopolita beneficiava del boom petrolifero, la maggioranza della popolazione restava esclusa.
Il regime si affidò eccessivamente alla SAVAK, la polizia segreta addestrata dagli americani e dal Mossad israeliano. Decine di migliaia di oppositori furono arrestati, torturati o costretti all’esilio. La paura era palpabile, eppure il dissenso iniziava a serpeggiare nelle moschee, nelle università e persino tra gli stessi bazaristi, i commercianti tradizionali che avevano sempre sostenuto il clero. La promessa di un futuro moderno si infrangeva contro la realtà di uno Stato autoritario, distante e percepito come culturalmente estraneo. Le problematiche economiche, poi, acuirono i problemi e le tensioni esistenti, alimentando un’opposizione eterogenea ma unita contro la monarchia e le sue scelte controverse.
Fattori Strutturali e Cause della Rivoluzione
Dietro l’esplosione rivoluzionaria del 1979 vi era una fitta trama di tensioni accumulate nel tempo., in quanto la società iraniana si trovava in una fase di transizione; fattori come l’urbanizzazione accelerata, le migrazioni interne, e un’istruzione in crescita avevano creato una generazione giovane, politicizzata, ma priva di reali sbocchi. Le disuguaglianze economiche si acuivano mentre il tenore di vita dell’élite cresciuta grazie ai proventi petroliferi diventava ostentatamente opulento. Erano molti gli iraniani a percepire che lo sviluppo fosse riservato ai quartieri benestanti di Teheran, mentre nelle periferie e nelle province l’inflazione e la disoccupazione erano in aumento.
A questo malessere materiale si aggiungeva un senso di perdita culturale, causata da una sostanziale ‘occidentalizzazione’ imposta dallo Shah, sostenuto da Stati Uniti e altre potenze occidentali; i cambiamenti nei costumi, nell’istruzione, e persino nell’abbigliamento erano percepiti da ampie fasce della popolazione come una minaccia alla propria identità religiosa e nazionale. Il clero sciita, con la sua rete di moschee e seminari (hawza), rappresentava un baluardo di resistenza culturale e spirituale, ma non certamente di modernizzazione. I discorsi degli ayatollah, spesso distribuiti clandestinamente sotto forma di cassette registrate, parlavano di giustizia sociale, ‘dignità islamica’ e lotta contro l’oppressione.
L’Iran era profondamente segnato, poi, da un diffuso senso di dipendenza geopolitica, a causa del forte legame con gli Stati Uniti e la percezione che lo Shah fosse un ‘fantoccio dell’Occidente’; questa situazione, evidentemente, alimentava un sentimento anti-imperialista diffuso. Anche tra i laici e i marxisti, la critica al dominio occidentale univa le lotte sociali a quelle religiose, creando una convergenza inedita, ma efficace. Le radici della rivoluzione, dunque, non erano soltanto religiose, ma anche economiche, culturali e politiche, ed esprimevano il bisogno collettivo di recuperare sovranità, giustizia e senso di appartenenza.
L’Ascesa di Khomeini e del Clero Sciita
In questo scenario di crescente insoddisfazione, emerse la figura carismatica e intransigente dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini; nato nel 1902 a Khomein, una piccola città iraniana, Khomeini si era formato negli ambienti religiosi più tradizionalisti di Qom, ma seppe coniugare la dottrina sciita con una visione politica di forte impatto mobilitante. Già negli anni Sessanta del secolo scorso egli si era distinto per la sua opposizione aperta alla White Revolution e al laicismo dello Shah, al punto da essere arrestato ed esiliato prima in Turchia, poi in Iraq e infine in Francia.
Dall’esilio, Khomeini non cessò mai di comunicare con il popolo iraniano, e i suoi messaggi, registrati su cassette audio, venivano distribuiti clandestinamente in tutto il paese e ascoltati nelle moschee e nelle case. Il suo linguaggio mescolava riferimenti religiosi, immagini apocalittiche e appelli morali contro la corruzione e l’oppressione; il clero sciita, storicamente autonomo rispetto al potere centrale, trovò in lui una guida capace di interpretare il disagio popolare e canalizzarlo verso un progetto politico islamico.
Khomeini riuscì a presentare una dottrina ‘rivoluzionaria’, grazie alla sua teoria della velayat-e faqih (la guida del giurista islamico), che proponeva un rovesciamento dell’idea tradizionale di separazione tra religione e politica. Secondo questa dottrina, in assenza dell’Imam nascosto (figura centrale nell’escatologia sciita) il potere politico doveva essere esercitato da un esperto della legge islamica. Si tratta, evidentemente, di una posizione controversa e non condivisa da tutti gli attori dell’opposizione, ma che, in un momento di crisi e vuoto di legittimità, offriva una soluzione organica e radicale.
Attorno a Khomeini si coagulò dunque un fronte decisamente eterogeneo, composto da religiosi, studenti, commercianti dei bazar, e anche da intellettuali di sinistra, una situazione analoga a quella che si registra(va) per la ‘causa palestinese’. I Fedayeen vennero infatti appoggiato sia dalla componente religiosa che laica della società, a ragione dell’elemento ‘rivoluzionario’, che allineava le argomentazioni religiose a quelle politiche.

Questa alleanza, sebbene fragile, fu decisiva per il successo del movimento rivoluzionario, in quanto Khomeini seppe presentarsi non solamente come guida spirituale, ma anche come simbolo vivente della resistenza e della speranza in un nuovo ordine politico fondato sulla ‘giustizia islamica’, concetto vago che sarà interpretato in senso repressivo negli anni che seguirono.
I Primi Anni della Rivoluzione (1977–1979)
Il periodo compreso tra il 1977 e il 1979 fu segnato da una rapida escalation degli eventi, iniziata dalla pubblicazione di un articolo (ritenuto) offensivo contro Khomeini sul quotidiano governativo ‘Ettela’at’, che provocò proteste spontanee nella città di Qom. L’articolo, ‘Iran and Black and Red Coloniziation’, suggeriva che Khomeini fosse un agente straniero.

Un uomo il cui passato era avvolto nel mistero, legato agli elementi più conservatori e regressivi del colonialismo, e nonostante avesse un sostegno speciale, non era riuscito a ottenere una posizione tra il clero stimato del paese, cercava un’opportunità per inserirsi negli affari politici e guadagnare notorietà a qualsiasi prezzo.
Ruhollah Khomeini fu ritenuto un agente adatto a questo scopo, e i reazionari rossi e neri lo consideravano l’individuo più adatto per contrastare la rivoluzione iraniana (la Rivoluzione Bianca, ndr). Fu riconosciuto come l’istigatore dell’infame evento del 5 giugno.
Ruhollah Khomeini, conosciuto come ‘Sayyed Hindi,’ non ha ancora ricevuto spiegazioni nemmeno dai suoi più stretti collaboratori riguardo alla sua associazione con l’India. Secondo un racconto, trascorse del tempo in India e stabilì collegamenti con gli insediamenti coloniali britannici lì, portando al suo soprannome ‘Sayyed Indiano.’ Un’altra teoria è che scrisse poesie romantiche nella sua giovinezza e adottò lo pseudonimo ‘Hindi,’ diventando quindi conosciuto con questo nome.
Alcuni credono anche che, poiché la sua educazione si svolse in India, adottò il cognome ‘Hindi’ per questo motivo, dato che era stato sotto l’insegnamento di un maestro indiano fin dalla sua infanzia.
Ahmad Rashidi Motlagh, L’Iran e la colonizzazione nera e rossa, Ettelaat, 7 gennaio 1978
La repressione delle manifestazioni causò i primi morti, innescando un ciclo di lutti e proteste che si ripeteva ogni quarantesimo giorno, secondo una tradizione religiosa sciita. Ogni nuova commemorazione diventava un’occasione di mobilitazione popolare.
Nel settembre 1978, l’esercito aprì il fuoco sui manifestanti in piazza Jaleh a Teheran, segnando il cosiddetto ‘Venerdì Nero’, in cui morirono centinaia di persone; evidentemente, la violenza della repressione galvanizzò ulteriormente l’opinione pubblica. In tutto il Paese si moltiplicarono scioperi, diserzioni militari, e manifestazioni oceaniche; il tessuto economico si paralizzò, e lo Shah si trovò sempre più isolato, mentre anche gli Stati Uniti d’America, suo principale alleato, iniziarono a prendere le distanze.
Il 16 gennaio 1979, lo Shah lasciò l’Iran per un ‘congedo temporaneo’, ma non fece mai più ritorno in Iran, ed il paese, in preda a un vuoto di potere, accolse il ritorno di Khomeini il 1 febbraio con manifestazioni oceaniche. La sua figura, ormai mitizzata, fu acclamata da milioni di persone come il legittimo leader morale della nazione.; in meno di due settimane l’esercito dichiarò la neutralità, il governo provvisorio collassò e la monarchia cadde definitivamente. Il 1° aprile 1979, tramite referendum, venne proclamata ufficialmente la Repubblica Islamica dell’Iran, che rimane la forma attuale dello Stato iraniano.
Implicazioni e Trasformazioni Post-Rivoluzionarie
La proclamazione della Repubblica Islamica dell’Iran nel 1979 segnò non la fine, ma l’inizio di una nuova era di profonde trasformazioni sociali, politiche e ideologiche; la nuova Costituzione, approvata nello stesso anno, sancì formalmente il principio della velayat e faqih, ponendo il potere religioso (incarnato dalla Guida Suprema) al di sopra delle istituzioni civili ed elettive. La guida di Khomeini assunse così un ruolo sacrale, e la sua autorità divenne il perno attorno al quale ruotava tutto il nuovo assetto statale, rendendo l’Iran una teocrazia esplicita.
La fase immediatamente successiva alla rivoluzione fu caratterizzata da un’ondata di epurazioni, in cui gli ex funzionari del regime dello Shah, i militari fedeli alla monarchia, ma anche molti alleati temporanei della rivoluzione (come laici, marxisti e liberali) furono emarginati o repressi. Il Partito comunista Tudeh, i Mojahedin del Popolo e altri gruppi rivoluzionari furono banditi dall’Iran, e le prigioni si riempirono di nuovi dissidenti. Il clima politico divenne dunque nuovamente (e semmai maggiormente) autoritario, seppur con un linguaggio islamico e rivoluzionario che celava un regime ancora più oppressivo di quello precedente.
Nel settembre 1980, l’Iraq di Saddam Hussein invase l’Iran, dando inizio a una guerra sanguinosa che sarebbe durata otto anni; il conflitto rafforzò l’unità nazionale attorno al nuovo regime e contribuì a consolidare l’identità rivoluzionaria e martirologica dello Stato islamico. La guerra fu narrata come una nuova guerra santa in difesa dell’Islam e del popolo iraniano, e molti giovani furono inviati al fronte con motivazioni religiose e patriottiche.
La società iraniana subì un processo di islamizzazione diffusa, e l’abbigliamento, l’istruzione, i media e la legislazione vennero allineati ai principi della shariah; le donne, che avevano avuto un ruolo attivo nella rivoluzione, furono obbligate ad indossaere il velo islamico e vennero escluse progressivamente da molti spazi pubblici e professionali. Tuttavia, malgrado le restrizioni, esse continuarono a partecipare attivamente alla vita sociale e politica, spesso in forme nuove e sotterranee.
Dal punto di vista geopolitico, l’Iran rivoluzionario ruppe le relazioni con l’Occidente, in particolare con gli Stati Uniti, e tale corso culminanò nella crisi degli ostaggi all’ambasciata americana (1979–1981). L’isolamento internazionale spinse il Paese verso una politica estera autonoma e assertiva, tesa a esportare il messaggio della rivoluzione nel mondo islamico. Questo atteggiamento contribuì a inasprire le tensioni con le monarchie sunnite del Golfo e con Israele, ma al contempo rafforzò il prestigio dell’Iran tra alcuni movimenti sciiti e anti-imperialisti.
Riflessioni Critiche e Prospettive Storiche
A oltre quarant’anni di distanza dalla rivoluzione del 1979, l’Iran continua a interrogare storici e osservatori sul significato e sull’eredità di quell’evento epocale e controverso; la Rivoluzione del 1979 non fu un monolite ideologico, ma un caleidoscopio di speranze, ideali e tensioni. Molti iraniani scesero in piazza per richiedere giustizia, libertà e indipendenza, sognavano un Paese in cui il potere non fosse più un privilegio dinastico o dipendente dalle potenze straniere, ma l’espressione della volontà popolare. Tuttavia, è presto diventato evidente che Khomeini sfruttò il senso identitario e lo scontento per instaurare una brutale dittatura in cui chiunque non sia allineato al pensiero del regime viene considerato una minaccia e un traditore dello Stato.
La storia degli ultimi 46 anni conferma questa impostazione iniziale, e conferma che le critiche e le opposizioni di Khomeini non avevano lo scopo di ottenere la libertà per il popolo iraniano, ma di preservare (e amplificare) il potere del clero sciita, e dello stesso Khomeini e dei suoi collaboratori.
Il progetto politico messo in atto da Khomeini e dai suoi seguaci seppe catalizzare un consenso trasversale durante la fase rivoluzionaria, ma una volta al potere emarginò progressivamente le voci dissidenti. Le promesse di pluralismo e partecipazione si infransero contro la realtà di un sistema teocratico autoritario, dove il dissenso veniva assimilato al tradimento; non sorprende, dunque, che diversi attivisti laici, intellettuali e rivoluzionari furono costretti all’esilio o al silenzio.
Eppure, la rivoluzione iraniana va compresa anche nel suo contesto storico e culturale. Fu una reazione potente alla perdita di sovranità, alla frustrazione sociale, all’alienazione culturale prodotta da decenni di modernizzazione imposta dall’alto. In questo senso, rappresentò una forma di riscatto collettivo e spirituale, un tentativo di riappropriarsi del proprio destino nazionale, e deve essere considerata incompiuta.
L’Iran post-rivoluzionario si è trasformato in un attore regionale di primo piano, spesso percepito come una minaccia dai suoi stessi vicini, ma anche come modello alternativo da alcuni movimenti islamici; il paese ha sviluppato una resilienza economica, tecnologica e culturale nonostante le sanzioni internazionali e l’isolamento diplomatico. Allo stesso tempo, le tensioni interne, tra giovani e autorità religiose, tra città e campagna, tra spinte riformiste e conservatrici, continuano a minare la stabilità del sistema.
Attualmente, le nuove generazioni di iraniani si confrontano con l’eredità della rivoluzione non solo come memoria storica, ma come sfida politica viva; mentre alcune rivendicazioni del 1979 restano attuali, emergono nuove domande su libertà individuale, diritti delle donne, apertura al mondo. La rivoluzione, quindi, non è un capitolo chiuso, ma un processo ancora in evoluzione, sebbene la brutale repressione attuata abbia impedito, fino a questo momento, la formazione di veri e propri movimenti di opposizione organizzati capaci di rovesciare il regime degli ayatollah.
Conclusione
La rivoluzione islamica del 1979 ha lasciato un segno indelebile non solo nella storia dell’Iran, ma anche nel panorama globale; fu un evento che sfidò le categorie interpretative della modernità politica, dimostrando che la religione poteva ancora essere motore di mobilitazione di massa e fondamento di un ordine statale. Ma fu anche una rivoluzione tradita, un’esplosione di speranze che si richiusero rapidamente sotto la scure di un regime repressivo, legittimato da un’interpretazione medievale (e funzionale al regime) della religione islamica.
L’Iran emerso da quella rivoluzione è un Paese complesso, intriso di memoria, di orgoglio nazionale e di contraddizioni profonde; la rivoluzione continua a vivere nei simboli ufficiali, ma anche nei conflitti quotidiani tra le promesse di libertà e la realtà della repressione e della sistematica negazione dei diritti fondamentali. Da questo punto di vista, la rivoluzione non è soltanto un fatto passato, ma una domanda ancora aperta sul futuro dell’Iran e sul rapporto tra fede, potere e libertà.
Letture Consigliate
- Seyed-Gohrab, A. (2021). Martyrdom, mysticism and dissent: the poetry of the 1979 Iranian Revolution and the Iran-Iraq War (1980-1988) (Vol. 34). Walter de Gruyter.
- Filin, N., Fahmy, S., Khodunov, A., & Koklikov, V. (2022). Two experiences of Islamic “revival”: The 1979 Islamic Revolution in Iran and the Formation of the “Islamic State” in Syria and Iraq in the 2010s. In Handbook of revolutions in the 21st century: The new waves of revolutions, and the causes and effects of disruptive political change (pp. 865-883). Cham: Springer International Publishing.
- Yeganeh, K. H. (2025). Revolution and counter-revolution: an analysis of the congruence between socioeconomic development, cultural values, and political order in contemporary Iran. Canadian Journal of Development Studies/Revue canadienne d’études du développement, 1-19.