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Abstract

Il Sud Est asiatico è un’area che ha testimoniato numerosi episodi di violenza dettata dall’estremismo religioso o politico; il ritorno dei combattenti nei Paesi di questa area geografica, inoltre, è motivo di preoccupazione, al pari del ruolo dei cosiddetti ‘lupi solitari’, persone che, pur non essendo affiliate a nessun gruppo terroristico, lanciano attacchi violenti.

Il crescente uso di donne e bambini negli attacchi terroristici, poi, aumenta la serietà della minaccia posta dall’estremismo, un fenomeno complesso a cui si deve rispondere con una strategia che agisce sulle cause profonde che possono facilitare l’emergere del radicalismo.

La presenza di gruppi salafiti non violenti nei Paesi del Sud Est asiatico, poi, costituisce una pericolosa area grigia, che potrebbe rivelarsi disastrosa per la stabilità sociale e politica; per questa ragione, è necessario che i predicatori salafi siano responsabilizzati nella loro azione di predicazione, che rimane legittima, ma che potrebbe ispirare azioni violente.


Introduzione

Durante gli anni Novanta del secolo scorso e l’inizio degli anni 2000 nel Sud Est asiatico si sono registrati relativamente pochi attacchi terroristici; tuttavia, i jihadisti, con particolare attenzione per Jemaah Islamiyah (JI), e i suoi gruppi affiliati, divennero sempre più sofisticati e bellicosi. In questo periodo, effettivamente, sono stati registrati diversi successi di alto profilo; si pensi, in questo senso, all’attentato di Bali del 2002 in cui furono uccise 202 persone. In Indonesia, la fine del regime di Suharto nel 1998 aveva dato a JI una nuova quanto inaspettata libertà di azione; la vera chiave del loro successo, tuttavia, era il loro legame con Al Qaeda, forgiato nei campi afghani negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, e che comportava importanti benefici, tra cui competenze, finanziamenti e supporto logistico.

Gli attacchi dell’11 settembre del 2001, seguiti dall’operazione militare in Afghanistan guidata dagli Stati Uniti d’America, seguita da quella in Iraq, hanno poi ulteriormente alimentato la causa jihadista; tuttavia, dopo che i legami con Al Qaeda furono effettivamente interrotti mediante azioni congiunte di forze dell’ordine e militari all’inizio degli anni 2000, le reti jihadiste nel Sud-Est asiatico divennero sempre più frammentate. Per questa ragione, entro la fine del decennio questi gruppi apparivano maggiormente concentrati su questioni locali, i cosiddetti ‘nemici vicini’, su cui si è concentrata la loro azione.


Il ritorno dei Talebani in Afghanistan

A seguito della decisione dell’allora amministrazione Trump di trattare con i talebani, che culminò nell’Accordo di Doha 2020 tra gli Stati Uniti e i talebani, le truppe statunitensi si ritirarono dall’Afghanistan nell’agosto del 2021. Il cambio di regime, evidentemente, non ha solamente modificato l’equilibrio di potere in Afghanistan, ma ha avuto ripercussioni sui loro legami con diversi gruppi terroristici ed estremisti, inclusi quelli che operano nel Sud-Est asiatico. Per questa ragione, è importante analizzare la reazione di governi ed organizzazioni terroristiche alla presa del potere dei talebani in Afghanistan.

A partire dall’agosto del 2021, sia l’Indonesia che la Malesia hanno stabilito relazioni di lavoro con il regime de facto dei talebani in Afghanistan, pur senza riconoscerlo ufficialmente; a questo proposito, i nota che l’Indonesia rappresenta il più grande Stato del mondo a maggioranza musulmana, e ha svolto un ruolo di primo piano nel coinvolgere i talebani, anche prima della loro riconquista del potere.

Una delle figure principali che ha chiesto relazioni più strette tra l’Indonesia ed il regime talebano è stata Jusuf Kalla, l’ex Vice-presidente del Paese asiatico nel corso della presidenza di Bambang Yudhoyono, tra il 2004 ed il 2009, a cui si aggiunge l’ex Presidente Jokowi Widodo. Kalla, in particolare, vanta una lunga storia di coinvolgimento informale con i leader talebani, tra cui spicca la mediazione dei colloqui di pace tra l’ex amministrazione di Ashraf Ghani ed i talebani. Il ruolo di mediazione di Kalla nel conflitto afghano ha anche portato ‘Mullah’ Abdul Ghani Baradar, l’attuale Vice Primo Ministro e ex capo dell’ufficio politico dei Talebani in Qatar, a visitare Giacarta nel luglio 2019, incontrando tra gli altri i leader di Nahdlatul Ulama (NU) ed il Majelis Ulama Indonesia, il Consiglio degli Ulema indonesiano.

Sebbene l’Indonesia avesse legami minimi con la prima amministrazione dei Talebani, dopo la loro destituzione nel novembre 2001, l’establishment indonesiano ha svolto un ruolo importante nella pacificazione in Afghanistan. Nel 2007, NU, pur non facendo parte del governo indonesiano, è stata mobilitata come parte del team di negoziazione che ha garantito il rilascio di un ostaggio sudcoreano detenuto dai talebani. Nel 2010, durante la presidenza di Bambang Yudhoyono, è stato istituito a Kabul il Centro Islamico dell’Indonesia; quattro anni più tardi, l’Indonesia ha istituito una filiale di NU in Afghanistan.

Uno degli obiettivi principali di Nadlatul Ulama rispetto ai Talebani era quello di moderare la loro visione del mondo sull’Islam, allo scopo di renderla più accettabile a livello internazionale, specialmente tra i loro co-religionari islamisti.

NU Afghanistan merupakan organisasi yang didirikan oleh Ulama Afganistan yang mayoritas berasal dari etnis Pashtun. NU Afghanistan didirikan oleh Fazal Ghani Kakar yang juga Managing Director Noor Educational & Capacity Development Organization (NECDO) yang banyak bergerak dalam pemberdayaan perempuan dan menjadi pelaksana program United Nations Development Fund for Women (UNIFEM), salah satu agensi Persatuan Bangsa-Bangsa (PBB) untuk pemberdayaan perempuan Afganistan. Ada lima prinsip yang yang dianut dan dikembangkan NU Afghanistan yaitu moderat (tawasuth), berimbang (tawazun), toleransi (tasamuh), keadilan (i’tidal), dan musyarakah.

NU Afghanistan è un’organizzazione fondata da studiosi religiosi afghani, la maggior parte dei quali appartiene all’etnia Pashtun. NU Afghanistan è stata fondata da Fazal Ghani Kakar, che è anche Managing Director della Noor Educational & Capacity Development Organization (NECDO), attiva nell’empowerment delle donne e attuatrice del programma United Nations Development Fund for Women (UNIFEM), una delle agenzie delle Nazioni Unite (ONU) per l’empowerment delle donne in Afghanistan. Ci sono cinque principi che NU Afghanistan adotta e sviluppa, ovvero la moderazione (tawasuth), l’equilibrio (tawazun), la tolleranza (tasamuh), la giustizia (i’tidal) e la consultazione (musyarakah).

(NU Online, NU Afghanistan Perkuat Pemahaman Islam Moderat, (NU Afghanistan Rafforza la Comprensione dell’Islam Moderato)

Sebbene i legami bilaterali dei Talebani con i gruppi non governativi indonesiani abbiano fatto alcuni progressi, ci sono stati dei seri ostacoli nell’introdurre il modello indonesiano in Afghanistan, che in parte derivavano dall’assenza degli Ulema legati ai Talebani ad una conferenza trilaterale del 2018, in cui erano coinvolti studiosi islamici indonesiani, afghani e pachistani.

In seguito all’Accordo di Doha, tuttavia, il governo indonesiano ha iniziato a interagire con i talebani, ed il governo indonesiano è stato invitato a testimoniare la firma dell’accordo di pace tra Stati Uniti e Talebani nel 2020. In seguito, l’Indonesia ha sollecitato la comunità internazionale a fornire pieno supporto all’Afghanistan, allo scopo, soprattutto, di garantire la pace tra le varie parti coinvolte nel Dialogo Intra-Afghano. Ci si è concentrati, in particolare, su due aspetti chiave del processo di pace, ovvero il ruolo degli Ulema (sapienti islamici), e l’emancipazione delle donne. In seguito all’accordo di Doha, Retno si è recato a Kabul per lanciare la Rete di Solidarietà tra Donne Indonesiane e Afghane, che coinvolgeva diverse leader femminili indonesiane.

Una nuova era è stata poi inaugurata dopo la riconquista del potere da parte dei talebani in Afghanistan, ed il 27 agosto del 2021, l’allora ministro degli esteri indonesiano ha esortato i talebani a formare un governo inclusivo, capace di garantire il rispetto dei diritti delle donne. Mentre si trovava in Qatar, Retno ha incontrato Sher Mohammad Abas Stanikzai, il Vice Direttore dell’Ufficio Politico dei Talebani, ed ha partecipato a discussioni volte a migliorare i legami tra i due Paesi, ma non sono stati stabiliti legami diplomatici ufficiali.

Nel dicembre del 2021, prima tra le nazioni del Sud Est asiatico, l’Indonesia ha ripristinato il suo ufficio di rappresentanza a Kabul; anche se questa decisione non ha implicato un riconoscimento ufficiale del regime talebano, essa rappresentava un compromesso per lavorare con chi, di fatto, deteneva il potere nel Paese. Nello stesso mese, durante l’incontro ministeriale straordinario dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), Retno ha delineato le condizioni che avrebbero aperto la strada al miglioramento dei legami diplomatici con i Talebani. Tra gli aspetti indicati, si trovavano la formazione di un governo inclusivo, il rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle donne, e l’assicurazione che il Paese non diventasse un terreno fertile per il terrorismo.


Combattenti di Ritorno e Lupi Solitari

Una delle preoccupazioni più serie per il Sud-est asiatico nel 2020 era il potenziale ritorno dei combattenti stranieri e delle loro famiglie dalla regione, attualmente in Siria; alcuni di questi individui sarebbero probabilmente tornati a casa, anche a rischio di affrontare processi e detenzioni. In alcuni casi, poi, erano previsti programmi di reintegrazione specializzati, che però non garantivano la certezza che i reati di terrorismo non sarebbero stati commessi nuovamente. Il timore, effettivamente, è che i combattenti ritornati dal periodo di attività terroristiche possano nuovamente impegnarsi in attività per pianificare e condurre nuovi attacchi; il pericolo maggiore, tuttavia, consiste nella possibilità che i rimpatriati aiutino ad espandere, riconsolidare e rinvigorire le reti jihadiste nella regione. Tale minaccia, evidentemente, richiedere anni per concretizzarsi, in quanto si tratta di attività complesse.


Evidentemente, i combattenti stranieri di ritorno e le loro famiglie non possono essere visti in isolamento dal più ampio gruppo di cellule autoctone e attori solitari, che possono o meno essere affiliati a organizzazioni come Jemaah Ansharut Daulah (JAD) e Abu Sayaf Group (ASG). Si tratta di persone deportate che hanno tentato, senza riuscirvi, di andare in Siria, a cui si aggiungono altri individui che si concentrano sulla realtà locale. In effetti, i legami con i gruppi consolidati non sono sempre chiari e gli autori spesso si affidano, piuttosto, alle relazioni familiari; di conseguenza, si tratta di persone che sono difficili da intercettare prima che possano colpire, anche in considerazione della disponibilità di armi. Per questa ragione, è ragionevole attendersi un aumento di atti di terrorismo (semi)autonomi, specialmente in Indonesia; casi simili, inoltre, potrebbero emergere a Singapore e in Malesia, anche se in tali contesti è maggiore la possibilità di intercettare in tempo le minacce, grazie ad un sistema di sicurezza più rigorosa. In altri Paesi, come le Filippine, in cui l’ambiente è più permissivo, organizzazioni come ASG sono destinate a rimanere la principale minaccia.


Il Ruolo di Donne e Bambini

Una caratteristica distintiva del terrorismo jihadista nell’era dell’ISIS è stata il crescente coinvolgimento di donne e bambini negli atti terroristici; con il passare del tempo, la mobilitazione e il reclutamento di questi soggetti avviene con maggiore frequenza, anche per condurre materialmente gli attacchi. Si tratta di un fenomeno che si rifelette nel consistente numero di donne e bambini che hanno viaggiato dal Sud-est asiatico alla Siria, a partire dal 2012. Tra coloro che (probabilmente) sono ancora in Siria, sembra che la maggioranza sia costituita proprio da donne e bambini; nella maggior parte dei casi, diventa estremamente difficile verificare se questi soggetti sono stati coinvolti negli atti di violenza.

Tuttavia, è possibile considerare la presenza di alcuni fattori predittivi, come il comportamento violento in passato, oppure il coinvolgimento in attività come il proselitismo e la raccolta fondi. In altre parole, tali elementi potrebbero indicare la concreta possibilità che anche donne e bambini siano stati coinvolti, a vario titolo, nelle attività terroristiche. Questo ragionamento, evidentemente, si può applicare anche alle jihadiste e ai loro figli che non hanno mai abbandonato la loro abitazione. La partecipazione di donne e bambini in complotti e attacchi suicidi in Indonesia è stata attestata per la prima volta nel 2016; l’arresto della prima pianificatrice di attentati suicidi di sesso femminile è avvenuto in Malesia nel maggio del 2018. Da ultimo, ma non certamente meno importante, la partecipazione di donne in attentati suicidi nelle Filippine è stata verificata nel gennaio e settembre del 2019; nel loro complesso, si tratta di indicatori che testimoniano la gravità di questa minaccia.

Gli attacchi che coinvolgono minorenni, sebbene destinati a rimanere marginali, potrebbero avere emulatori in futuro, da un piccolo numero di estremisti ultra-radicali molto pericolosi; per quanto riguarda il coinvolgimento delle donne nella conduzione degli attacchi, sembra che questa tendenza sia destinata ad aumentare. In altre parole, ci si può aspettare che le donne giochino ruoli essenziali nella riparazione, nel sostegno e nell’espansione delle reti jihadiste mentre il movimento cerca di riprendersi da eventuali battute d’arresto e fallimenti. Per questa ragione, i Paesi del Sud Est asiatico dovrebbero considerare questa minaccia con estrema attenzione, per evitare di non essere preparati di fronte ad eventuali attacchi.

Gli attentati di Surabaya del maggio 2018 hanno suscitato una particolare impressione, in quanto essi hanno coinvolto 5 adolescenti e 5 bambini, con un’età compresa tra i sette e i dodici anni, nel ruolo di attentatori suicidi, oppure erano presenti nella fabbrica di bombe a Sidarjo quando è esplosa la sera del 13 maggio. Gli analisti si sono interrogati se tale attacco segni l’inizio di una nuova fase di jihad violento, in cui i bambini saranno utilizzati su base regolare con ruoli attivi, e non solamente di supporto; del resto, gli stessi jihadisti non concordano su questa strategia.


Un fenomeno complesso

I gruppi islamisti presenti nel Sud Est asiatico costituiscono un fenomeno diversificato e complesso che rappresenta una sfida significativa per la sicurezza e la stabilità dell’intera regione; si tratta di una minaccia che può essere sconfitta. Il contrasto al jihadismo passa, inevitabilmente, dalla comprensione di queste organizzazioni, che possono essere efficacemente contrastate solamente mediante un approccio omni-comprensivo, basato sull’attenta considerazione dei loro contesti storici, politici, economici e sociali.


Comprendere la natura complessa dei gruppi islamisti in questa regione geografica, in effeti, richiede un’analisi approfondita delle variabili fondamentali capaci di plasmare la loro nascita ed evoluzione; si ricorda che, storicamente, nella regione in esame sono stati presenti diversi movimenti con obiettivi differenti. Alcuni di essi, in effetti, ricercano il potere politico, altri sono favoreli a riforme sociali, mentre altri ancora agiscono sulla spinta di ideologie più radicali; per questa ragione, un approccio completo per affrontare la sfida posta dai gruppi islamisti nel Sud-est asiatico non può prevedere solamente misure basate sulla sicurezza, ma anche iniziative che affrontano le cause profonde della radicalizzazione. Si pensi, a tale proposito, alla promozione di uno sviluppo economico inclusivo, capace di garantire un accesso equo all’istruzione e alle risorse.


Il contrasto all’estremismo violento significa anche sostenere le voci moderate all’interno della comunità musulmana che promuovono la coesistenza pacifica e la tolleranza religiosa; si nota, a tale proposito, che il salafismo rimane spesso ambiguo su questo punto. Il continuo richiamo ad una fede ‘pura’, scevra delle aggiunte e delle interpolazioni culturali locali, potrebbe essere interpretato da persone violente come un invito a ‘purificare’ la comunità con la forza. Il dibattito ed il pluralismo teologico, evidentemente, devono essere garantiti, ma servirebbe una maggiore responsibilizzazione dei predicatori.


Conclusioni

Il complesso fenomeno del terrorismo nel Sud Est asiatico rimane un problema che desta, comprensibimente, enormi preoccupazioni per la stabilità della regione; sebbene gli obiettivi possano essere differenti, gli atti compiuti da persone che appartengono a queste organizzazioni possono essere altamente destabilizzanti. Si consideri, inoltre, che le fragili democrazie che sono nate in questa regione del mondo, come l’Indonesia, sono continuamente sottoposte alla sollecitazione di forze che vorrebbero imporre regimi autoritari e violenti, basati su interpretazioni della sharia già viste in altre parti del mondo.

Il crescente uso di donne e bambini negli attacchi, anche con un ruolo attivo, e non solamente di supporto, costutuisce un ulteriore elemento di preoccupazione; per questa ragione, è necessario che i governi del Sud Est asiatico adottino un approccio multi-livello, allo scopo di agire sulle cause profonde del terrorismo e del radicalismo. Il sostegno delle voci moderate, poi, può concorrere a creare società più tolleranti e resilienti rispetto alla minaccia dell’estremismo violento.


Letture Consigliate

  • Mullins, S. (2020). Twenty-Five Years of Terrorism and Insurgency in Southeast Asia. Hindsight, Insight, Foresight: Thinking about Security in the Indo-Pacific. Daniel K. Inouye Asia-Pacific Center for Security Studies.
  • D’Souza, S. M. (Ed.). (2019). Countering insurgencies and violent extremism in South and South East Asia. Routledge.
  • Phillips, M. D., & Kamen, E. A. (2014). Entering the black hole: The Taliban, terrorism, and organised crime. Journal of Terrorism Research.

Di Salvatore Puleio

Salvatore Puleio è analista e ricercatore nell'area 'Terrorismo Nazionale e Internazionale' presso il Centro Studi Criminalità e Giustizia ETS di Padova, un think tank italiano dedicato agli studi sulla criminalità, la sicurezza e la ricerca storica. Per la rubrica Mosaico Internazionale, nel Giornale dell’Umbria (giornale regionale online) e Porta Portese (giornale regionale online) ha scritto 'Modernità ed Islam in Indonesia – Un rapporto Conflittuale' e 'Il Salafismo e la ricerca della ‘Purezza’ – Un Separatismo Latente'. Collabora anche con ‘Fatti per la Storia’, una rivista storica informale online; tra le pubblicazioni, 'La sacra Rota Romana, il tribunale più celebre della storia' e 'Bernardo da Chiaravalle: monaco, maestro e costruttore di civiltà'. Nel 2024 ha creato e gestisce la rivista storica informale online, ‘Islam e Dintorni’, dedicata alla storia dell'Islam e ai temi correlati. (i.e. storia dell'Indonesia, terrorismo, ecc.)

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