Abstract
L’articolo esplora il panorama jihadista in Pakistan, analizzando i principali gruppi armati attivi (TTP, LeT, al-Qaeda) e il ruolo delle madrase radicalizzate nei processi di reclutamento. Mettendo in luce le ambiguità istituzionali e le dinamiche territoriali, si evidenzia come il terrorismo prosperi in assenza di una strategia statale coerente. Serve dunque una risposta multilivello che affianchi riforme strutturali a misure di sicurezza.
The article explores the jihadist landscape in Pakistan, analysing the main armed groups active (TTP, LeT, al-Qaeda) and the role of radicalised madrasas in recruitment processes. Highlighting institutional ambiguities and territorial dynamics, it is evident how terrorism thrives in the absence of a coherent state strategy. A multi-level response is thus needed that combines structural reforms with security measures.
Introduzione – I Principali Gruppi Terroristici
Il Pakistan contemporaneo si presenta come uno degli spazi geopolitici più complessi del panorama globale in materia di sicurezza. A oltre due decenni dall’inizio della cosiddetta ‘guerra al terrore’, il Paese continua a essere teatro di attività riconducibili a un mosaico frammentato ma persistente di organizzazioni estremiste armate. Sebbene differenti per origine, agenda e grado di internazionalizzazione, questi gruppi condividono un dato strutturale, ovvero il radicamento in un contesto segnato da instabilità istituzionale, conflitti identitari e asimmetrie socio-economiche profonde.
Nel delineare una mappa dei principali attori, appare utile distinguere tra almeno tre macro-categorie:
- Gruppi insurrezionali autoctoni (come il Tehrik e Taliban Pakistan, TTP), attivi prevalentemente nelle aree tribali e volti alla trasformazione dello Stato secondo un’interpretazione radicale della sharia;
- Formazioni jihadiste transnazionali (tra cui al Qaeda o Lashkar e Taiba), capaci di operare oltre i confini e dotate di una dimensione ideologica globale;
- Gruppi settari (come Sipah e Sahaba e Lashkar e Jhangvi), focalizzati sulla repressione violenta delle minoranze religiose, in particolare della comunità sciita (che saranno affrontati in un articolo futuro).
Dal punto di vista geografico, questi attori non si distribuiscono in modo uniforme sul territorio pakistano. Le aree tribali al confine con l’Afghanistan, oggi formalmente integrate nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, rimangono aree ad alta intensità militante, in parte a causa della porosità del confine e della debolezza amministrativa. In questa zona, sia il TTP che le affiliazioni simili hanno stabilito le loro basi operative e logistiche, spesso godendo del sostegno di reti locali e di un difficile accesso da parte delle forze governative.
Nella provincia del Punjab meridionale, invece, si assiste a un fenomeno più subdolo, e gruppi come LeT o SSP si sono radicati nei tessuti religiosi ed educativi, approfittando di una narrativa religiosa conservatrice e di spazi di ambiguità lasciati aperti da decenni di tolleranza o complicità istituzionale. Il Baluchistan, al contrario, è spesso scenario di sovrapposizione tra jihadismo e movimenti separatisti etnici, rendendo ancora più difficile la lettura univoca del fenomeno.
Le grandi città, come Karachi, Lahore e Islamabad, fungono da epicentro secondario, in quanto nodi logistici, centri di reclutamento e luoghi di visibilità simbolica; in questi contesti urbani, le cellule terroristiche operano spesso sotto traccia, in un equilibrio instabile tra clandestinità e sostegno periferico.

Infine, va sottolineata una dinamica trasversale, in quanto i gruppi non operano isolatamente, ma in reti fluide, spesso alleate o concorrenti, dove le linee di demarcazione tra jihadismo globale, lotte locali e crimini organizzati si fanno sempre più labili. Pertanto, la mappa dei gruppi terroristici attivi in Pakistan non è mai statica, ma rappresenta una fotografia in movimento, in cui alleanze, scissioni, infiltrazioni e mutamenti dottrinali ne ridefiniscono costantemente i contorni.
Comprendere questa geografia violenta non è solo un esercizio analitico, bensì una condizione preliminare per elaborare risposte efficaci, che non si limitino alla sola dimensione militare ma affrontino anche le radici ideologiche, educative ed economiche che alimentano questo complesso fenomeno.
Tehrik e Taliban Pakistan (TTP)
Tra le molteplici organizzazioni armate attive in Pakistan, il Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP) occupa un posto centrale per longevità, impatto operativo e rilevanza simbolica. Fondato formalmente nel dicembre del 2007, il TTP non nasce come gruppo unitario, bensì come coalizione di milizie tribali attive nel nord-ovest del paese, in particolare nelle aree tribali a statuto speciale (ex-FATA), oggi annesse al Khyber Pakhtunkhwa. Il suo obiettivo dichiarato fin dall’inizio è la creazione di uno Stato islamico basato sulla shariah, attraverso il rovesciamento dell’ordine costituzionale del Pakistan.
L’ascesa del TTP va letta nel contesto delle trasformazioni regionali successive all’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001; elementi come la militarizzazione del confine afghano-pakistano, la crescita del salafismo e del jihadismo, unitamente alle contraddizioni interne al Pakistan (tra tolleranza istituzionale verso alcuni gruppi e repressione selettiva di altri) hanno creato il terreno ideale per la nascita di un movimento apertamente ostile tanto allo Stato quanto all’Occidente.
L’ideologia del TTP si ispira in larga parte a quella dei Talebani afghani, ma ne radicalizza ulteriormentel’agenda; il gruppo pakistano, in effetti, si distingue per un atteggiamento più aggressivo nei confronti dell’esercito pakistano, considerato un ‘regime apostata’ e accusato di essere succube dell’influenza americana.
Organizzato inizialmente sotto la guida carismatica di Baitullah Mehsud, il TTP ha sviluppato negli anni una struttura a rete, in cui il comando centrale convive con cellule operative semiautonome. Le divisioni interne, dovute a rivalità personali, divergenze strategiche o interferenze esterne, hanno portato a periodiche fratture, tra cui la nascita di gruppi scissionisti come Jamaat ul Ahrar. Eppure, nonostante questi episodi di frammentazione, il TTP ha dimostrato una notevole capacità di resilienza, riorganizzandosi nel tempo anche grazie a un ambiente regionale favorevole, come quello afghano post-2021.
Le sue operazioni seguono uno spettro molto ampio, con attentati suicidi, imboscate a convogli militari, esecuzioni pubbliche, rapimenti, estorsioni e attacchi a obiettivi simbolici, inclusi scuole, moschee e ospedali.
Tuttavia, la risposta istituzionale, per quanto intensa, non è bastata a sradicare il fenomeno, e, tra il 2021 e il 2023, il TTP ha rilanciato la propria offensiva, approfittando del ritiro occidentale dall’Afghanistan, delle difficoltà economiche interne e di un’amministrazione civile spesso incapace di gestire in modo coordinato la sicurezza nelle province periferiche.
Parallelamente alla lotta armata, il TTP ha affinato una strategia di comunicazione ideologica, veicolata tramite canali Telegram, media locali e reti educative informali. Il gruppo propone una narrativa che denuncia la corruzione dell’élite statale, la ‘decadenza morale’ ispirata dall’Occidente e la necessità di ‘purificare’ la società pakistana da influenze esterne e deviazioni interne. Queste campagne di propaganda, spesso rivolte a giovani emarginati o a popolazioni prive di accesso a servizi statali, mirano a fornire al jihad non solo una giustificazione religiosa, ma anche (e soprattutto) una dimensione sociale e identitaria.
Il Tehrik e Taliban Pakistan rappresenta molto più di un attore armato, in quanto rappresenta l’espressione di un conflitto strutturale tra Stato e territori marginalizzati, tra modernità istituzionale e aspirazioni teocratiche, tra centralismo governativo e potere tribale. La sua persistenza testimonia le fragilità del sistema di sicurezza nazionale e la difficoltà di affrontare in maniera sistemica le radici del radicalismo. Un’analisi lucida del fenomeno non può prescindere dalla comprensione del contesto ideologico e sociale in cui il TTP continua a prosperare.
Lashkar e Taiba (LeT)
Tra le organizzazioni jihadiste emerse nel subcontinente indiano negli ultimi decenni, Lashkar e Taiba (LeT) si distingue per capacità logistiche, sviluppo della rete internazionale e legami controversi con settori istituzionali. Fondata nei primi anni Novanta in Pakistan, con il supporto ideologico dell’organizzazione caritativa Markaz al Dawa wal Irshad, la LeT nasce con un obiettivo preciso, il sostegno della lotta armata in Kashmir, regione contesa tra India e Pakistan, e rivendicata da entrambe le potenze sin dalla Partizione del 1947.
Lashkar e Taiba si inserisce in un quadro geopolitico segnato da tensioni irrisolte e violenze cicliche nella regione del Jammu e Kashmir. In questo scenario, il gruppo ha operato non solo come attore militante, ma anche come strumento strategico implicito della politica pakistana, impegnata nel mantenere un’alta pressione sull’India senza un confronto diretto tra eserciti regolari.
Sebbene Islamabad abbia ufficialmente messo al bando il LeT a più riprese, numerosi osservatori internazionali hanno sottolineato la persistente ambiguità nel rapporto tra il gruppo e alcuni settori dell’intelligence militare pakistana (ISI). Questa ambivalenza ha permesso alla LeT di crescere indisturbata in alcune fasi storiche, consolidando infrastrutture logistiche, accademiche e caritative, spesso usate come copertura.
Una delle ragioni del successo operativo di LeT risiede nella sua complessa architettura organizzativa, e, a tale proposito, si nota che a differenza di altri gruppi jihadisti frammentari o territorialmente limitati, LeT dispone di una rete ramificata che si estende ben oltre i confini pakistani. Fonti documentate parlano di finanziamenti provenienti da donazioni caritative, reti di moschee all’estero, supporto diasporico e canali criptati di trasferimento dei fondi.
Il reclutamento avviene sia a livello locale, con particolare attenzione per il Punjab e le aree povere del Kashmir pakistano, sia in contesti transfrontalieri. Giovani provenienti da ambienti religiosi conservatori, spesso attratti da un discorso apparentemente identitario e difensivo dell’Islam sunnita, vengono selezionati, formati in campi paramilitari e indirizzati verso obiettivi strategici.
Sebbene numerosi attentati siano stati condotti all’interno del Kashmir indiano e pakistano, il nome di LeT ha assunto risonanza mondiale con l’attacco del novembre 2008 a Mumbai. In quell’occasione, un commando di dieci uomini armati, giunti via mare da Karachi, paralizzò per quasi tre giorni la capitale finanziaria indiana, colpendo hotel di lusso, stazioni ferroviarie e un centro ebraico. Le vittime furono oltre 170, e il massacro fu trasmesso in diretta dai media globali, oltre ad ispirare anche dei film che raccontavano gli eventi in esame.
Questo episodio segnò una svolta nella percezione internazionale del gruppo, che da attore regionale si trasformò in una minaccia terroristica transnazionale. Pur essendo stato condannato ufficialmente dal governo pakistano, LeT non fu mai del tutto smantellato, e continua a operare in forma riorganizzata sotto sigle come Jamaat ud Dawa (JuD) o Falah e Insaniat Foundation, formalmente impegnate in attività umanitarie.
L’elemento che più sorprende in Lashkar e Taiba è la sua resilienza sistemica, e, a differenza di altri gruppi armati, che si frammentano in seguito a pressioni statali o conflitti interni, LeT ha mantenuto una disciplina centralizzata e una notevole coerenza dottrinale. La sua ideologia si fonda su una versione pan-islamista del salafismo, integrata da un discorso nazionalista legato alla liberazione del Kashmir.
Sebbene il Pakistan sia stato sottoposto a pressioni significative, si nota che le misure adottate contro LeT sono state spesso più formali che sostanziali. Questo ha alimentato critiche da parte di attori internazionali, in particolare l’India, che accusa Islamabad di usare LeT come ‘proxy armato’ nel conflitto kashmiro.
Al Qaeda nella Galassia Jihadista Pakistana
Nel frammentato panorama del jihadismo pakistano, la presenza di al Qaeda rappresenta un nodo tanto simbolico quanto operativo; se l’organizzazione fondata da Osama bin Laden è spesso associata alla dimensione transnazionale del terrorismo islamico, il suo radicamento in Pakistan dopo il 2001 ne ha evidenziato una seconda natura. Al Qaeda è emersa come attore capace di adattarsi ai contesti locali, integrarsi nelle reti già esistenti e trasformarsi in forza ideologica diffusa.
L’ingresso massiccio di al Qaeda nel tessuto pakistano ha origine dall’invasione statunitense dell’Afghanistan; mentre i Talebani afghani si ritiravano verso le province meridionali o si riorganizzavano clandestinamente, numerosi membri di al-Qaeda (tra cui lo stesso bin Laden) trovarono rifugio in territorio pakistano, in particolare lungo la frontiera porosa delle aree tribali e nelle zone urbane periferiche.
In questa fase, il Pakistan divenne per al-Qaeda una retrovia strategica, non solo per il riparo fisico, ma anche per l’attività logistica, la formazione ideologica e la diffusione mediatica. Le città di Karachi, Quetta e Abbottabad furono al centro di un vero e proprio ecosistema jihadista sotterraneo, alimentato da reti educative radicali, complicità locali e ambiguità istituzionali.
La coabitazione tra al Qaeda e i gruppi militanti autoctoni non fu priva di frizioni, ma portò anche a collaborazioni strategiche significative; in particolare, l’organizzazione riuscì a stringere legami ideologici e operativi con il Tehrik e Taliban Pakistan (TTP), fornendo know-how logistico, supporto nella propaganda e training operativo. Queste sinergie contribuirono alla radicalizzazione di nuove leve jihadiste e alla creazione di una narrativa unificata contro il ‘regime apostata di Islamabad’, oltre che contro l’Occidente.
Tuttavia, non mancarono le divergenze strategiche, soprattutto nel rapporto con le comunità locali e nella gestione del territorio. Al-Qaeda, attenta a preservare la propria immagine di guida spirituale globale, adottò spesso un approccio più soft nelle dinamiche di governance rispetto alla brutalità esibita da alcune cellule pakistane.
L’episodio che ha messo in luce la profondità del radicamento di al Qaeda in Pakistan è senza dubbio la scoperta e l’eliminazione di Osama bin Laden, avvenuta il 2 maggio 2011 ad Abbottabad, a pochi chilometri da un’accademia militare pakistana. Si tratta di un’operazione condotta in autonomia dagli Stati Uniti senza preavviso alle autorità pakistane, che sollevò interrogativi globali circa il ruolo di Islamabad. Ci si chiedeva (e ci si continua a chiedere) come era possibile che il leader di al Qaeda potesse vivere per anni in una cittadina di medie dimensioni, senza adottare particolari cautele per sfuggire all’intelligence nazionale.
Non sorprende, dunque, che questo evento abbia segnato una rottura profonda tra Islamabad e Washington; allo stesso tempo, è diventato evidente il problema strutturale delle ambiguità nella politica di sicurezza pakistana.
Dopo il colpo di Stato del 2011, la presenza di al Qaeda in Pakistan ha subito una progressiva riduzione operativa, ma non ha mai cessato del tutto la propria attività; l’organizzazione ha infatti preferito adottare un profilo più modesto, ma non meno efficace. Al Qaeda, ha adottato una strategia di sopravvivenza ideologica, mediante la diffusione del radicalismo, l’ispirazione di micro-cellule, ed il mantenimento dei canali usati per la propaganda. Tale strategia ha permesso ad Al Qaeda di rimanere un punto di riferimento simbolico per gruppi emergenti, anche se il centro dell’attenzione globale si è progressivamente spostato verso lo Stato Islamico (ISIS).
Nel contesto pakistano, tuttavia, al Qaeda mantiene ancora oggi una presenza latente, e risulta militarmente più debole, ma resiliente da un punto di vista ideologico, soprattutto in ambienti marginalizzati, madrase radicali e aree segnate da conflitti cronici.
Il Ruolo delle Madrase nei Processi di Reclutamento
Nel dibattito internazionale sul terrorismo in Pakistan, le madrase (le scuole islamiche tradizionali) sono spesso evocate come possibili incubatrici dell’estremismo religioso; ciò nondimeno, ridurre l’intero fenomeno jihadista alla sola dimensione ‘educativa’ rischia di essere fuorviante. La realtà risulta decisamente più complessa e molte madrase svolgono un ruolo educativo legittimo (seppure opinabile a ragione dell’orientamento conservatore), mentre una minoranza politicizzata e ideologicamente orientata ha svolto, e in alcuni casi continua a svolgere, una funzione chiave nei processi di radicalizzazione.
Il Pakistan ospita decine di migliaia di madrase, sia ufficiali che non, distribuite su tutto il territorio nazionale; storicamente, esse sono sorte per fornire istruzione religiosa gratuita a giovani di famiglie povere, soprattutto nelle aree rurali o periferiche prive di accesso a scuole statali. Tuttavia, è nelle province del Punjab meridionale, del Khyber Pakhtunkhwa e in parte del Baluchistan che si concentra il numero più alto di madrase con orientamento radicale, spesso legate a correnti deobandi (una corrente sufi) o salafite.
Molte madrase hanno poi beneficiato per decenni di finanziamenti esterni, in particolare da Paesi del Golfo, e hanno instaurato rapporti ambigui con alcuni movimenti militanti. In tali contesti, l’educazione impartita non si limita allo studio del Corano, ma si costruisce attorno a una visione monolitica dell’Islam, profondamente settaria, fortemente politicizzata e ostile alla modernità occidentale.
Le madrase radicalizzate adottano programmi didattici che pongono grande enfasi sulla disciplina dogmatica, sull’obbedienza all’autorità religiosa e sulla separazione netta tra ‘credenti’ e ‘infedeli’; in alcuni casi, i materiali didattici promuovono apertamente l’uso della violenza come strumento di difesa della fede, interpretando testi sacri in chiave jihadista.
I giovani studenti, spesso reclutati da famiglie vulnerabili o orfani, vivono in ambienti chiusi, isolati da fonti di informazione alternativa; il risultato è un processo di socializzazione settaria, che priva il soggetto di strumenti critici e alimenta un’identità fondata sul conflitto permanente. Alcune madrase fungono inoltre da snodo logistico per il reclutamento in gruppi militanti, offrendo una ‘progressione’ che va dalla formazione teorica al coinvolgimento diretto in attività jihadiste.

Negli ultimi decenni, vari governi pakistani hanno tentato (spesso in modo formale) di avviare un processo di riforma dell’istruzione religiosa, mediante piani sistematici come il Madrasa Reform Project o l’introduzione di curricula misti, misure che sono spesso state solamente annunciate, mentre la loro implementazione è scarsa. Le resistenze vengono sia da parte delle élite religiose, che temono di perdere potere, sia da settori dello Stato che continuano a percepire alcune madrase come strumenti di controllo sociale o geopolitico.
Il risultato è una persistente zona grigia, in cui molte madrase operano al di fuori di ogni supervisione, alimentando un sistema (dis)educativo parallelo che sfugge a qualunque forma di controllo pubblico; la mancanza di trasparenza sui fondi ricevuti e l’assenza di criteri comuni per la certificazione dei docenti contribuiscono ulteriormente a rendere vulnerabile il sistema nel suo complesso.
Le madrase radicalizzate costituiscono uno dei vettori meno visibili ma più insidiosi della radicalizzazione jihadista in Pakistan; non si tratta di luoghi di istruzione, ma di microcosmi ideologici dove si forma una visione del mondo impermeabile al dialogo e predisposta al conflitto. Tale visione, del resto, è favorita e alimentata dall’impostazione conservatrice di queste istituzioni, che difficilmente accettano di integrare metodi e tematiche moderne nei loro curricola.
Conlcusioni
L’analisi dei gruppi terroristici operanti in Pakistan mostra con chiarezza l’effetto perverso di una politica di sicurezza condotta su un doppio binario; la repressione selettiva da un lato e la tolleranza strategica dall’altro. Questa ambiguità ha permesso la sopravvivenza, e in alcuni casi la rinascita, di organizzazioni armate che continuano a influenzare il contesto regionale; le madrase emergono come attori ambigui e spesso apertamente promotrici di ideologie radicali e violente. La tolleranza dello Stato e delle isituzioni per questo genere di sistema ‘educativo’, poi, rende inefficace qualunque tentativo di riformare metodologie e contenuti proposti agli studenti.
Letture Consigliate
- Akhtar, S., & Ahmed, Z. S. (2023). Understanding the resurgence of the Tehrik-e-Taliban Pakistan. Dynamics of Asymmetric Conflict, 16(3), 285-306.
- Abbas, S. A., & Syed, S. H. (2021). Sectarian terrorism in Pakistan: Causes, impact and remedies. Journal of Policy Modeling, 43(2), 350-361.
- Basit, A., & Ahmed, Z. S. (2021). The persistence of terrorism in Pakistan: An analysis of domestic and regional factors. In Terrorism, Security and Development in South Asia (pp. 157-174). Routledge.