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Abstract

Il presente contributo analizza comparativamente la condizione delle minoranze religiose nelle Filippine e in Indonesia, con particolare attenzione al rapporto tra maggioranza e pluralismo religioso; nel contesto filippino, la Chiesa cattolica, pur segnata da contraddizioni storiche, ha sviluppato un approccio orientato al dialogo e alla coesistenza, sostenuto sia dal magistero contemporaneo che da iniziative interreligiose che promuovono la riconciliazione. In Indonesia, al contrario, la religione maggioritaria musulmana è stata progressivamente intrecciata con la costruzione dell’identità nazionale e con dinamiche politiche che, specialmente dopo la caduta di Suharto, hanno ridotto gli spazi di libertà per le minoranze cristiane, alimentando forme di discriminazione e marginalizzazione.

Il confronto evidenzia due modelli distinti, ovvero, da un lato, un cristianesimo che, pur non immune da tensioni, ha favorito l’inclusione istituzionale; dall’altro un Islam politico che tende a identificare la fede con la legittimazione del potere, con conseguenze negative per il pluralismo e per i diritti fondamentali. Il quadro complessivo mostra come la qualità della convivenza dipenda non solamente dalla composizione religiosa, ma soprattutto dall’uso della propria posizione da parte della maggioranza. La sfida comune al Sud-Est asiatico rimane quella di trasformare la religione da strumento di divisione a risorsa di pace, riconoscendo che nessuna stabilità può fondarsi senza il rispetto della dignità e dei diritti di ogni comunità.


This article comparatively analyses the situation of religious minorities in the Philippines and Indonesia, with particular attention to the relationship between the majority and religious pluralism. In the Philippine context, the Catholic Church, despite being marked by historical contradictions, has developed a dialogue-oriented and coexistence approach, supported by both contemporary magisterium and interreligious initiatives that promote reconciliation. In Indonesia, on the contrary, the majority Muslim religion has been progressively intertwined with the construction of national identity and with political dynamics that, especially after the fall of Suharto, have reduced the spaces of freedom for Christian minorities, fuelling forms of discrimination and marginalisation.

The comparison highlights two distinct models: on the one hand, a Christianity that, while not immune to tensions, has favoured institutional inclusion; On the other hand, there is a political Islam that tends to identify faith with the legitimation of power, with negative consequences for pluralism and fundamental rights. The overall picture shows how the quality of coexistence depends not only on the religious composition, but above all on the majority’s use of their position. The common challenge for Southeast Asia remains that of transforming religion from a tool of division into a resource for peace, recognising that no stability can be built without respect for the dignity and rights of every community.


Introduzione – Pluralismo nel Sud-Est Asiatico

Nel Sud-Est asiatico la religione non è soltanto un sistema di credenze, ma rappresenta un elemento costitutivo dell’identità collettiva e, spesso, un fattore politico primario; le Filippine e l’Indonesia, da questo punto di vista, offrono due casi emblematici di come le maggioranze religiose (cattolica nel primo Paese e musulmana sunnita nel secondo) si rapportino con le rispettive minoranze, in particolare musulmani filippini e cristiani indonesiani. Il confronto tra questi due contesti, seppure caratterizzati da storie e dinamiche molto differenti, rivela quanto il peso delle maggioranze religiose possa incidere non soltanto sul grado di tolleranza e dialogo, ma anche sulla strumentalizzazione politica del credo religioso.

Il diverso atteggiamento deriva proprio dalle concezioni teologiche e ideologiche maggioritarie proprie delle due religoni, in quanto entrambi i Paesi hanno un passato coloniale; si tratta di due ex colonia, una spagnola, in cui il cattolicesimo è diventato la religione maggioritaria, e uno olandese, in cui il cristianesimo protestante non è mai diventato la confessione della maggioranza della popolazione.


La Minoranza Musulmana nelle Filippine

Le Filippine sono l’unico Paese a maggioranza cattolica dell’Asia orientale, con oltre l’80% della popolazione che si riconosce nella Chiesa cattolica; la presenza musulmana, concentrata nel sud dell’arcipelago (in particolare a Mindanao e nelle isole Sulu) rappresenta circa il 6-7% della popolazione. Si tratta di comunità che vantano una storia antica e consolidata, in quanto l’Islam vi arrivò, come già osservato in un articolo passato, attraverso le rotte commerciali ben prima della colonizzazione spagnola. Pertanto, i sultanati islamici della regione costituirono un potere autonomo, mai del tutto sottomesso all’autorità coloniale.

Il rapporto tra la maggioranza cattolica e la minoranza musulmana è stato a lungo conflittuale, ma ha conosciuto evoluzioni significative negli ultimi decenni; dopo una lunga stagione di guerriglia condotta dai movimenti secessionisti islamici, come il Moro National Liberation Front (MNLF) e il Moro Islamic Liberation Front (MILF), si è giunti ad una serie di accordi che hanno concesso alla regione di Mindanao una forma di autonomia politica. Il culmine di tale processo è stato la creazione, nel 2019, del Bangsamoro Autonomous Region in Muslim Mindanao (BARMM) nel 2019, una divisione amministrativa che gode di una certa autonomia.

Moschea a Lanao del Sur (Mindanao)

La Chiesa cattolica filippina ha avuto un ruolo importante in questo processo, e seppure abbia condiviso le paure diffuse nella popolazione rispetto agli attentati e alla violenza degli anni precedenti, i vescovi filippini hanno spesso invitato alla riconciliazione e al dialogo interreligioso. Le conferenze episcopali hanno ribadito il diritto dei musulmani a vedere rispettata la propria identità culturale e religiosa, sottolineando che la pace nel Sud del Paese non può essere raggiunta attraverso la repressione militare, ma solo con la giustizia e l’inclusione sociale. In altre parole, alla resistenza armata dei gruppi islamisti, la maggioranza cattolica ha risposto con una proposta di dialogo e inclusione, e non con la repressione di gruppi che rimangono terroristi e separatisti.


La Maggioranza Cattolica e il Dialogo Interreligioso

Il cattolicesimo filippino, nonostante le sue contraddizioni, si è mostrato capace di sviluppare una sensibilità verso il tema della coesistenza; si tratta di una situazioe che deriva in parte dall’esperienza storica della colonizzazione spagnola. Gli spagnoli, come noto, diffusero il cattolicesimo che diventò la religione dominante, anche se venne osteggiata dai gruppi minoritari; l’atteggiamento dei cattolici, tuttavia, dipende maggiormente dal magistero cattolico contemporaneo, che ha sottolineato la necessità di dialogo e riconciliazione nei conflitti etnico-religiosi.

Si pensi all’esperienza del movimento interreligioso Silsilah Dialogue Movement, fondato da missionari del PIME a Zamboanga, che da decenni lavora per costruire dialogo e comprensione tra cristiani e musulmani. Tale progetto è stato creato da Padre Sebastiano d’Ambra, il 9 maggio del 1984, a partire da un gruppo di amici sia cattolici che musulmani; l’obiettivo dichiarato è quello di creare un ambiente di dialogo e rispetto reciproco tra coloro che appartengono alle due fedi religiose.

Simili iniziative testimoniano come la Chiesa filippina non si limiti ad una difesa astratta della libertà religiosa, ma si impegni concretamente nella promozione della convivenza, a differenza di quanto avviene nei Paesi in cui l’Islam è maggioritario (o ancora peggio religione di Stato o retto direttamente dalla Sharia).

Comprensibilmente, non mancano le diffidenze reciproche, e le comunità cristiane di Mindanao hanno spesso denunciato episodi di violenza e discriminazione da parte di gruppi musulmani, soprattutto nelle aree rurali controllate dai clan locali. Ma nel complesso, la linea prevalente del cattolicesimo filippino è stata quella della difesa dei diritti delle minoranze, compresa quella musulmana, come condizione imprescindibile per la stabilità nazionale. Si tratta di una scommessa rischiosa, che rischia di fallire di fronte alla determinazione e radicalismo dei musulmani che non accettano compromessi, considerandoli una sorta di tradimento verso la comunità di appartenenza.


L’Indonesia e la Posizione dei Cristiani

In Indonesia, la situazione è diametralmente opposta, in quanto, con circa 247 milioni di musulmani, si tratta del Paese con la popolazione islamica più numerosa del mondo; la sua tradizione religiosa è stata per lungo tempo segnata da un Islam tendenzialmente moderato e aperto al pluralismo. Questi due termini, tuttavia, devono essere correttamente compresi nel loro contesto, in quanto essi non assumono il significato che si attribuisce loro in occidente. La moderazione e il pluralismo inteso in tale contesto è una versione di questi concetti che si scontra e viene subordinata al ‘rispetto’ dei valori islamici; in altre parole, non si tratta di concetti assoluti, ma relativi.

A partire dagli anni Novanta e in modo più marcato dopo la caduta di Suharto nel 1998, l’Islam indonesiano ha conosciuto una crescente politicizzazione; diversi movimenti islamisti hanno guadagnato visibilità nello spazio pubblico, mentre i partiti religiosi hanno spinto per un rafforzamento del ruolo della shariah nella vita civile. Tale processo, evidentememente, ha avuto conseguenze dirette sulla condizione delle minoranze, in particolare quella cristiana, che rappresenta circa il 10% della popolazione; del resto, la posizione dei cristiani era già precaria nel periodo dell’Orde Baru.

Suharto non ha mai concesso maggiori spazi o concessioni ai cristiani rispetto a quanto osservato nel periodo di Sukarno; la maggioranza sunnita, in altre parole, ha sempre usato l’Islam come strumento identitario ‘forte’, anche se non necessariamente violento. L’ascesa dei movimenti e partiti islamici, tuttavia, è propria della reformasi, inaugurata dalla fine della dittatura di Suharto, che ha liberato spazi politici in precedenza non immaginabili.

Le comunità cristiane indonesiane, concentrate soprattutto nelle regioni orientali e nelle città, sono state spesso oggetto di discriminazioni legali e di attacchi violenti; emblematica, da questo punto di vista, è la difficoltà burocratica per la costruzione di nuove chiese. Le normative, sia locali che nazionali, richiedono permessi che, di fatto, sono difficilissimi da ottenere, in quanto subordinati al consenso della maggioranza musulmana dei residenti. In molti casi, luoghi di culto cristiani sono stati chiusi o distrutti da gruppi radicali con la complicità tacita delle autorità, e molti di questi episodi sono recentissimi, come testimoniano i casi di Sukabumi e Padang (giugno e luglio 2025). In questi casi, luoghi di preghiera privati, che non necessitano di alcuna autorizzazione, sono stati oggetto di violenti attacchi da parte di folle intolleranti, con la complicità e connivenza delle autorità locali.

La reazione da parte delle autorità è lento, ambiguo e insufficiente, in quanto, alle dichiarazioni di principio sulla necessità di rispettare la Pancasila e la Costituzione, non seguono azioni concrete, e i responsabili di questi reati di odio religioso non vengono perseguiti, oppure vengono incriminati di reati minori, come il vandalismo. La reazione delle minoranze cristiane, tuttavia, non è la formazione di gruppi radicali e separatisti, come solitamente avviene a parti invertite, ma la richiesta di dialogo e riconciliazione.


Islam Politico e Minoranze in Indonesia

Il tratto distintivo dell’Indonesia contemporanea è l’uso politico dell’Islam,a discapito delle minoranze, non solo cristiane, ma anche delle correnti islamiche ritenute eretiche o ‘sbagliate’, come gli Ahmadyia, oggetto di una vera e propria persecuzione. Nonostante il Paese mantenga formalmente una struttura laica e multireligiosa, la pressione dei movimenti islamisti ha spinto i governi a tollerare forme crescenti di discriminazione. Le grandi organizzazioni islamiche tradizionali, come Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah, hanno cercato (almeno formalmente) di difendere un Islam moderato, ma spesso si sono trovate strette tra la necessità di mantenere consenso popolare e la forza delle frange più radicali.

Il processo ha toccato un apice nel 2016-2017, quando il governatore cristiano (e di etnia cinese) di Giacarta, Basuki Tjahaja Purnama, detto ‘Ahok’, è stato travolto da accuse di blasfemia orchestrate da movimenti islamisti. Il suo processo e la successiva condanna (a due anni di reclusione) hanno segnato un punto di svolta, mostrando come l’Islam politico sia capace di mobilitare masse enormi per colpire una figura pubblica cristiana, e quanto sia fragile fosse il principio di uguaglianza religiosa. Questo caso, ma non solo, ha posto in evidenza che il pluralismo, in Indonesia, è tollerato nel migliore dei casi, ma non certamente incentivato e promosso. Piuttosto, le autorità tendono a mantenere e rafforzare lo status quo, e qualunque segnale di cambiamento (un governatore cristiano, una ‘cristianizzazione’ inventata, ecc), viene represso senza indugio.

In questo contesto, la condizione dei cristiani indonesiani appare molto diversa da quella dei musulmani nelle Filippine; questi ultimi hanno trovato dei reali interlocutori nella Chiesa cattolica e nello Stato, disposti a negoziare e garantire spazi di autonomia. I cristiani indonesianim, sia cattolici che protestanti, invece, devono confrontarsi con una maggioranza musulmana che non esita ad utilizzare l’Islam come strumento di potere politico e come marcatore di appartenenza nazionale. E’ meglio non pensare a quale sarebbe la reazione delle autorità indonesiane nel caso in cui i cristiani reagissero come i musulmani minoritari nelle Filippine, formando gruppi militanti e violenti.


Confronto tra Due Modelli

Il confronto tra le Filippine e l’Indonesia evidenzia due modelli differenti di gestione della pluralità religiosa; nel caso filippino, la maggioranza cattolica ha mantenuto un atteggiamento che, pur tra tensioni e conflitti, ha favorito il riconoscimento dei diritti della minoranza musulmana e ha cercato soluzioni istituzionali inclusive. Nel caso indonesiano, la maggioranza musulmana ha invece mostrato una tendenza a identificare la religione con l’identità nazionale, restringendo gli spazi delle minoranze cristiane e permettendo che l’Islam fosse sempre più utilizzato come strumento politico.

Nelle Filippine, la religione maggioritaria ha funzionato come argine alla disgregazione sociale, mentre in Indonesia essa è stata progressivamente piegata a fini di dominio politico, e le conseguenze si vedono chiaramente. Da un lato un Paese (le Filippine) che, pur segnato da conflitti, ha trovato nel dialogo interreligioso una via possibile per la pace; dall’altro un Paese (l’Indonesia) che rischia di sacrificare il suo pluralismo storico sull’altare di una crescente e preoccupante islamizzazione della politica.

L’atteggiamento delle autorità islamiche indonesiane, del resto, è tipico dei Paesi a maggioranza musulmana; anzi, l’Indonesia presenta un approccio moderato rispetto a realtà come l’Afghanistan o l’Iran o altre nazioni in cui la religione maggioritaria è l’islam. Allo stesso modo, il dialogo promosso dalla maggioranza cattolica nelle Filippine risulta tipico rispetto a quanto si può osservare in altri contesti.

Per questa ragione, ritengo ragionevole parlare di un modello ‘islamico’ maggioritario, che prevede delle eccezioni ovviamente, e di un modello ‘cattolico’ o ‘cristiano’; il primo prevede il ricorso a violenza sistematica e istituzionale, mentre il secondo ricorre al dialogo e alla ricerca della coesistenza. In entrambi i casi, ovviamente, esistono gruppi che non condividono l’atteggiamento dialogante cattolico (o cristiano) o quello politico dell’Islam, ma si tratta di componenti minoritarie, che generalmente non riescono a modificare l’impostazione generale.


Conclusioni

Il parallelo tra la condizione dei musulmani nelle Filippine e quella dei cristiani in Indonesia ricorda che la maggioranza religiosa di un Paese non è un semplice dato statistico, ma un fattore determinante per la qualità della convivenza. Quando la maggioranza si percepisce come garante della giustizia e della pace, come nel caso della Chiesa cattolica filippina, le minoranze trovano margini di riconoscimento e dialogo. Se la maggioranza, invece, utilizza la religione (solitamente l’Islam, sia sunnita che sciita) come strumento di legittimazione politica, come accade in Indonesia, le minoranze rischiano di trovarsi progressivamente escluse, discriminate e strumentalizzate, se non oggetto di una vera e propria persecuzione.

Il Sud-Est asiatico, storicamente terra di pluralismi religiosi e culturali, mostra dunque due strade divergenti; quella del dialogo e dell’inclusione, che appare minoritaria e legata al cristianesimo, e quella della politicizzazione della fede, non solamente islamica. La sfida, in entrambi i casi, rimane la stessa, e si tratta di trasformare la religione da fattore di divisione a risorsa di convivenza, riconoscendo che nessuna pace può essere stabile se non poggia sul rispetto dei diritti e della dignità di tutti. Sebbene non si possa parlare di una precisa identificazione tra ‘violenza/Islam’ da un lato, e ‘Cristianesimo/dialogo’ dall’altro, la tendenza storica (specialmente recente) appare confermata e non tendenziosa. Su questi processi si dovrebbe seriamente riflettere, e le stesse comunità musulmane dovrebbero seriamente riflettere sull’atteggiamento da tenere in futuro.


Letture Consigliate

  • Bahçıvan, S. (2025). Muslim Minorities in Philippines. In The Palgrave Encyclopedia of Islamic Finance and Economics (pp. 1-7). Cham: Springer Nature Switzerland.
  • Damayanti, A., & Yunanto, S. (2022). From Evangelization to Worship Restrictions: The Changing Characteristics of Threat Perception between Muslims and Christians in Indonesia. Islam and Christian–Muslim Relations33(4), 329-353.
  • Mackey, W., & Dolven, B. (2021). Religious intolerance in Indonesia. Current Politics and Economics of South, Southeastern, and Central Asia30(2/3), 299-304.

Di Salvatore Puleio

Salvatore Puleio è analista e ricercatore nell'area 'Terrorismo Nazionale e Internazionale' presso il Centro Studi Criminalità e Giustizia ETS di Padova, un think tank italiano dedicato agli studi sulla criminalità, la sicurezza e la ricerca storica. Per la rubrica Mosaico Internazionale, nel Giornale dell’Umbria (giornale regionale online) e Porta Portese (giornale regionale online) ha scritto 'Modernità ed Islam in Indonesia – Un rapporto Conflittuale' e 'Il Salafismo e la ricerca della ‘Purezza’ – Un Separatismo Latente'. Collabora anche con ‘Fatti per la Storia’, una rivista storica informale online; tra le pubblicazioni, 'La sacra Rota Romana, il tribunale più celebre della storia' e 'Bernardo da Chiaravalle: monaco, maestro e costruttore di civiltà'. Nel 2024 ha creato e gestisce la rivista storica informale online, ‘Islam e Dintorni’, dedicata alla storia dell'Islam e ai temi correlati. (i.e. storia dell'Indonesia, terrorismo, ecc.). Nel 2025 ha iniziato a colloborare con la testata online 'Rights Reporter', per la quale scrive articoli e analisi sull'Islam, la shariah e i diritti umani.

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