Trump Arabia Saudita
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Trump ha avuto un atteggiamento pragmatico verso i Paesi islamici, e in particolare con l’Arabia Saudita, con cui ha intessuto una relazione basata sul realismo e pragmatismo politico; il tycoon ha inaugurato una nuova stagione basata su interessi geopolitici ed economici, e non sull’allineamento (o meno) rispetto alle ideologie.


Trump has taken a pragmatic approach towards Islamic countries, and particularly with Saudi Arabia, with whom he has forged a relationship based on political realism and pragmatism; The tycoon has ushered in a new season based on geopolitical and economic interests, rather than alignment (or lack thereof) with ideologies.


Introduzione – Trump e il Mondo Islamico

Nell’ambito dei rapporti tra l’Occidente e il mondo islamico, la figura di Donald Trump occupa un posto singolare; il suo approccio all’Islam non fu quello dell’evangelizzatore, ma nemmeno quello del dialogatore illuminato. Il tyconn, invece, si è sempre posto come un osservatore spregiudicato, che tratta(va) il mondo musulmano come un aggregato di forze politiche, economiche e religiose da valutare con freddezza, oggettività e senso strategico. Il suo sguardo non è mai stato ideologico, ma transazionale, e si basa(va) sul contributo potenziale di ciascun attore rispetto agli interessi statunitensi, in termini di sicurezza, risorse e influenza geopolitica.

A partire dal suo insediamento, Trump mostrò di voler modificare profondamente l’approccio ereditato dalla politica estera americana dei suoi predecessori; l’idea che gli Stati Uniti dovessero farsi portatori di valori universali (democrazia, diritti umani, libertà religiosa) gli appariva come un lusso ideologico, spesso controproducente. L’Islam, dal suo punto di vista, non era un problema da risolvere e nemmeno un blocco unitario con cui dialogare, ma una realtà multipolare da gestire, plasmata da rivalità regionali e da logiche di potere proprie.

L’Arabia Saudita, in tale ambito, divenne il fulcro della sua visione mediorientale, e per comprendere la natura del rapporto tra Trump e il regno wahhabita, bisogna partire da una constatazione; Trump non guardava ai sauditi come a fratelli nella fede o a portatori di valori comuni, ma come a soci d’affari in un mercato geopolitico globale. Il suo linguaggio, segnato da logiche econimiche (cifre, contratti e investimenti), si sposava perfettamente con la mentalità di una monarchia che aveva sempre preferito la stabilità economica all’instabilità politica.


Il Primo Segnale – Riyadh come Nuovo Centro di Gravità

Il maggio 2017 segnò una cesura storica, e il primo viaggio all’estero di Trump, appena insediato alla Casa Bianca, non fu a Londra o a Bruxelles, ma a Riyadh; si trattò di una scelta simbolica, in quanto il cuore del mondo islamico sunnita era stato selezionato come primo interlocutore ufficiale. La cerimonia di accoglienza, sontuosa e rigorosamente codificata, fu anche un segnale politico; l’Arabia Saudita offriva all’America di Trump non una comunanza di valori, ma un patto di interessi reciproci.

Video della visita di Trump in Arabia Saudita, il 20 Maggio 2017. (I diritti appartengono ai rispettivi autori)

Il discorso che Trump pronunciò davanti a più di cinquanta leader musulmani fu il manifesto del suo realismo politico; non ci fu alcun riferimento alla democrazia, ai diritti umani o alle libertà civili; invece, il suo lessico era quello dell’imprenditore globale, segnato da parole come investimenti, sicurezza, partnership. Il tycoon parlò di un’alleanza contro il terrorismo e contro l’estremismo islamico, ma senza mai identificare l’Islam stesso come nemico; per lui, l’Islam era (e rimane) una forza storica da rispettare, a patto però che accetti di combattere i propri elementi più radicali e di cooperare economicamente con l’Occidente.

Fu a Riyadh che Trump consolidò il legame personale con Mohammed bin Salman, il giovane principe ereditario destinato a ridisegnare il volto del regno, e di fatto il regnante; MbS incarnava per Trump il modello di leader ideale, decisionista, modernizzatore, privo di scrupoli ideologici. La sua ambiziosa Vision 2030, un piano di riforme volto a ridurre la dipendenza dal petrolio e ad aprire l’economia saudita agli investimenti stranieri, risuonava perfettamente con la filosofia trumpiana. Entrambi credevano nel potere della ricchezza come strumento di stabilità politica, senza condizionamenti ideologici di alcun tipo.


Il Denaro come Linguaggio Diplomatico

Il nucleo del rapporto tra Trump e i sauditi fu (e rimane) essenzialmente economico, e nel corso della prima visita nel 2017 venne firmato un pacchetto di accordi commerciali e militari stimato in oltre 110 miliardi di dollari. Una cifra enorme, in parte disattesa, ma che rifletteva una convergenza non solo tattica ma sistemica; Trump presentò quei contratti come una vittoria per i lavoratori americani, mentre i sauditi li interpretarono come una garanzia di protezione politica e militare contro l’Iran.

Dietro quella logica di scambio, sicurezza in cambio di capitale, si cela(va) la vera natura del trumpismo in politica estera, la sostituzione dell’ideologia con la contrattualità del potere; Trump non voleva (e non vuole tuttora) ‘riformare’ il Medio Oriente, ma stabilizzarlo a proprio vantaggio. L’Arabia Saudita, con la sua immensa capacità finanziaria, la sua influenza religiosa e il suo controllo del mercato energetico, divenne l’architrave di questa strategia.

La sua amministrazione sostenne apertamente l’intervento saudita nello Yemen, considerandolo parte di una più ampia guerra di contenimento dell’Iran; quando Riyadh e i suoi alleati isolarono il Qatar nel 2017, accusandolo di sostenere Teheran e i Fratelli Musulmani, Trump appoggiò pubblicamente questa scelta, salvo poi moderarne i toni per non spaccare l’alleanza del Golfo.

In ogni caso, la costante rimaneva la stessa, nessuna condanna morale, nessun giudizio etico, ma un calcolo di convenienza politica ed economica; l’Arabia Saudita garantiva all’America forniture energetiche, acquisti militari e un ruolo stabilizzatore nella regione, mentre Trump, in cambio, le offriva sostegno politico e copertura diplomatica.


Il Caso Khashoggi – La Morale Piegata alle Logiche Economiche

Il 2 ottobre 2018, l’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel consolato di Istanbul minacciò di incrinare quell’equilibrio; l’opinione pubblica internazionale chiese una risposta forte, ma Trump scelse la strada del silenzio operativo. Pur definendo l’omicidio ‘terribile’, egli si rifiutò di imporre sanzioni al regno o di rompere i contratti in corso; spiegò la sua posizione in termini crudi, ma onesti, affermando di non avere intenzione a rinunciare a miliardi di dollari di investimenti per un singolo evento.

Dietro quella frase, che scandalizzò (come altri suoi interventi) l’establishment occidentale, si nascondeva una concezione coerente del potere; Trump vede(va) la politica estera come un’arena di interessi, non di valori. A differenza di Obama, non si percepiva custode di un’etica universale, ma di una responsabilità nazionale; il mondo, nella sua visione, non era un luogo da migliorare, ma da negoziare e da cui trarre vantaggio.

Jamal Khashoggi e MbS. (Credits: BBC, 2019)

Molti nei paesi arabi compresero quella logica meglio di quanto non facessero i commentatori occidentali; per i leader del Golfo, Trump rappresenta(va) un interlocutore prevedibile, che non pretendeva di insegnare modelli politici, non interferiva con la sovranità interna, e non giudicava la religione. Trump chiedeva soltanto stabilità, cooperazione e denaro, una linea coerente con gli interessi strategici del Medio Oriente.


La logica dell’Equilibrio – Tra Iran, Israele e Petrolio

Sotto la superficie economica, la relazione con Riyadh rispondeva ad un disegno più ampio, quello di contenere l’Iran e riequilibrare il sistema mediorientale; Trump ruppe l’accordo sul nucleare (JCPOA) e rilanciò le sanzioni contro Teheran, rafforzando il ruolo saudita come baluardo sunnita e anti-iraniano.

Parallelamente, incoraggiò il processo di normalizzazione tra Israele e i Paesi arabi, culminato negli Accordi di Abramo; l’Arabia Saudita non vi aderì formalmente, ma consentì ai voli israeliani di attraversare il proprio spazio aereo e sostenne indirettamente l’apertura diplomatica degli Emirati e del Bahrain. In questo modo, Trump contribuì a ridisegnare la geografia politica della regione; Israele e i Paesi sunniti erano di fatto uniti in un fronte comune contro l’Iran, mentre l’America si ritraeva parzialmente dal suo ruolo di garante diretto.

Trump accoglie Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca.

Dietro questa architettura, il petrolio rimaneva la moneta geopolitica, come dimostrano i diversi accordi tra la Casa Bianca e Riyadh sulle politiche energetiche, sia per sostenere i prezzi del greggio, sia per evitare squilibri che potessero favorire la Russia o l’Iran. Anche in questo caso, l’approccio era puramente funzionale, nessuna grande visione strategica, ma una serie di aggiustamenti tattici per mantenere l’equilibrio globale.


La Visione di Trump nel Secondo Mandato (2024 – Oggi )

La visione espressa da Trump nel corso del suo primo mandato presidenziale (2017 – 2021), è stata ripresa recentemente, dopo aver vinto un secondo mandato (2024-oggi); il 13 maggio 2025, a circa 8 anni di distanza dalla sua prima visita come Presidente degli USA, il tycoon ha parlato, quando la guerra tra Israele e Hamas era ancora in corso, del suo piano per la prosperità in Medio Oriente.

Si tratta di un discorso ampiamente criticato, sia negli USA che all’estero, ma che, nouvamente, è stato male interpretato; Trump ha parlato ancora di stabilità ed investimenti e di un futuro di pace e prosperità per una delle regioni in cui la parola pace è diventata un ricordo molto lontano.

Trump al forum per gli investimenti tra Arabia Saudita e Stati Uniti d’America, 2025 (Credits: White House)

Trump ha ricordato, con il suo consueto realismo e pragmatismo politico, che

Before our eyes, a new generation of leaders is transcending the ancient conflicts and tired divisions of the past, and forging a future where the Middle East is defined by commerce, not chaos; where it exports technology, not terrorism; and where people of different nations, religions, and creeds are building cities together — not bombing each other out of existence.” 

“This great transformation has not come from Western interventionists … giving you lectures on how to live or how to govern your own affairs. No, the gleaming marvels of Riyadh and Abu Dhabi were not created by the so-called ‘nation-builders,’ ‘neo-cons,’ or ‘liberal non-profits,’ like those who spent trillions failing to develop Kabul and Baghdad, so many other cities. Instead, the birth of a modern Middle East has been brought about by the people of the region themselves … developing your own sovereign countries, pursuing your own unique visions, and charting your own destinies.” 

Sotto i nostri occhi, una nuova generazione di leaders sta superando gli antichi conflitti e le stanche divisioni del passato, e sta forgiando un futuro in cui il Medio Oriente è definito dal commercio, non dal caos; in cui esporta tecnologia, non terrorismo; e in cui persone di diverse nazioni, religioni e credo stanno costruendo città insieme, non bombardandosi a vicenda fino alla scomparsa (annientamento reciproco, ndr)

Questa grande trasformazione non è arrivata dagli interventisti occidentali… che vi tengono lezioni su come vivere o come governare i vostri affari. No, le scintillanti meraviglie di Riad e Abu Dhabi non sono state create dai cosiddetti “costruttori di nazioni”, “neocon” o “organizzazioni non profit liberali”, come quelli che hanno speso trilioni fallendo nello sviluppo di Kabul e Baghdad, e di tante altre città. Invece, la nascita di un Medio Oriente moderno è stata portata avanti dagli stessi popoli della regione… sviluppando i vostri paesi sovrani, perseguendo le vostre visioni uniche e tracciando i vostri destini”.

(The White House, In Riyadh, President Trump Charts the Course for a Prosperous Future in the Middle East, May 13, 2025)

Nuovamente, alla pace proposta da Trump (principale autore della successiva pace tra Israele e Hamas) sono seguite le considerazioni stizzite del politically correct europeo e statunitense, un mondo che non si arrende alla presenza di una figura come Trump; ancora una volta, il tycoon mostra l’accortezza di non rivolgersi ad un generico ‘mondo islamico’ o ‘medio oriente’. Al contrario, egli distingue gli attori che hanno abbracciato il cambiamento verso la prosperità e ammette che tale inversione di tendenza, positivo, non è merito dell’Occidente (o non solo di esso) ma soprattutto dei governi e delle forze vive del Medio Oriente.


Conclusione – La Politica come Contratto

Il rapporto tra Trump e l’Arabia Saudita è probabilmente l’esempio più chiaro del suo pragmatismo politico; nessun ideale o crociata, ma la convinzione che il potere sia un affare e che la diplomazia non debba travestirsi da morale. Per molti, questa impostazione rappresenta un impoverimento etico della politica estera americana, mentre per altri si tratta di una liberazione dal peso dell’ipocrisia e dalle regole del politically correct.

A Trump deve essere riconosciuto il merito di aver restituito al rapporto con il mondo islamico, e con l’Arabia Saudita in particolare, una dimensione di realtà, segnata, esplicitamente (e non più in maniera sotterranea) dalla logica del calcolo, dell’interesse, e del compromesso. Nella sua visione del mondo, la stabilità viene anteposta agli ideali, e la fiducia all’adesione ideologica.

In un’epoca segnata da incertezze e mutamenti d’equilibrio, quella visione può apparire brutale, ma resta coerente con la sua natura di uomo d’affari prestato alla politica; l’ordine internazionale, del resto, al pari di qualunque trattativa, non si regge non su principi morali, ma sulla pragmatica dei patti e degli interessi condivisi.


Letture Consigliate

  • Bremmer, I. (2018). Us vs. Them: The failure of globalism. New York: Portfolio/Penguin.
  • Kaye, D. D. (2020). US-Saudi relations under Trump: Continuity and change. RAND Corporation Report.
  • Friedman, T. L. (2018, November 20). The Trump-MBS relationship: The art of the deal meets the prince of power. The New York Times.

Di Salvatore Puleio

Salvatore Puleio è analista e ricercatore nell'area 'Terrorismo Nazionale e Internazionale' presso il Centro Studi Criminalità e Giustizia ETS di Padova, un think tank italiano dedicato agli studi sulla criminalità, la sicurezza e la ricerca storica. Per la rubrica Mosaico Internazionale, nel Giornale dell’Umbria (giornale regionale online) e Porta Portese (giornale regionale online) ha scritto 'Modernità ed Islam in Indonesia – Un rapporto Conflittuale' e 'Il Salafismo e la ricerca della ‘Purezza’ – Un Separatismo Latente'. Collabora anche con ‘Fatti per la Storia’, una rivista storica informale online; tra le pubblicazioni, 'La sacra Rota Romana, il tribunale più celebre della storia' e 'Bernardo da Chiaravalle: monaco, maestro e costruttore di civiltà'. Nel 2024 ha creato e gestisce la rivista storica informale online, ‘Islam e Dintorni’, dedicata alla storia dell'Islam e ai temi correlati. (i.e. storia dell'Indonesia, terrorismo, ecc.). Nel 2025 ha iniziato a colloborare con la testata online 'Rights Reporter', per la quale scrive articoli e analisi sull'Islam, la shariah e i diritti umani.

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